C’È UN CANTO DENTRO DI ME
di Giovanni Papini
Giovanni Papini
C’è un canto dentro di me che non potrà mai uscire dalla mia bocca – che la mia mano non saprà scrivere sopra nessun pezzo di carta.
C’è un canto dentro di me che devo ascoltare io solo – che devo soffrire e sopportare soltanto io.
C’è un canto chiuso nelle mie vene come gli adagi celestiali nelle canne argentate degli organi – c’è un canto che non fiorirà come la radice del giaggiolo sepolta sotto la frana.
C’è un canto dentro di me che che resterà sempre dentro di me.
Se questo canto uscisse dal mio cuore romperebbe il mio cuore.
Se questo canto fosse scritto dalla mia mano nessun’altra parola più potrebbe scrivere la mia mano.
Questo canto non sarà detto che nell’ultima ora della mia vita; questo canto sarà il principio d’una felice agonia.
C’è un canto dentro di me che non può uscire fuori di me perché non furono ancor create le parole necessarie.
Un canto senza misura e senza tempo; senza ritmo e senza leggi.
Un canto che non può adagiarsi in nessuna forma e che spezzerebbe qualunque linguaggio. Un canto che nessuno potrebbe ascoltare senza che la sua anima fosse sgomenta dalla sorpresa e ricolorata da un altro sole.
Un canto più respirato che detto, più presentito che manifestato: suono di luci, raggio d’accordi.
Un canto che non desidera nessuna musica perché sarebbe più melodioso d’ogni strumento conosciuto.
Dentro il mio cuore così grande che a giorni contiene l’universo questo canto è così grande che ci sta a gran fatica. Nei minuti più angosciosi della vita questo canto vorrebbe traboccare dal mio cuore troppo stretto come il pianto dagli occhi di chi piange se stesso. Ma lo respingo e lo ringhiotto perché insieme a lui anche il sangue del mio cuore traboccherebbe con la stessa furia voluttuosa. Lo rinchiudo in me stesso perché non voglio ancora morire. Son la vittima docile di questo canto divino e omicida. Debbo serrare il cuore come la porta di una carcere e soffocare i suoi battiti soprumani come tanti rimorsi. Ed essere, con tutta la mia tenerezza, il feroce a cui non s’ accostano i deboli.
Perché il mio canto sarebbe uno spaventoso canto d’amore e quest’amore brucerebbe tutto quello che tocca.
L’amore che riscalda soltanto è appena tiepido ma il vero amore nel medesimo soffio bacia e distrugge.
Quest’ amore sarebbe così splendente d’infocata bramosia che in quel giorno la terra illuminerebbe il sole e la mezzanotte sarebbe più ardente del più bruciato meriggio.
Ma io non canterò mai questo terribile canto che mi consuma senza che nessuno abbia compassione del mio tormento.
Non canterò questo canto meraviglioso che la mia paura rinnega e che fa tremare la mia debolezza.
Non canterò questo canto perché nessuno potrebbe sostenerne l’infinita, la straziante, la dolorosa dolcezza.
(da Opere di Giovanni Papini. Volume diciassettesimo. Poesia in prosa. Cento pagine di Poesia – Giorni di Festa. Nuova edizione con molte aggiunte, Vallecchi, Firenze, 1932, pp. 273-276. Originariamente in Cento Pagine di Poesia, 1915, con qualche leggera differenza).