Addio a Fernanda Pivano

GRAZIE NANDA
Genova 18 luglio 1917 – Milano 18 agosto 2009
Ma grazie a Dio ci sono questi ragazzi di 18 anni che mi mandano le loro poesie, i loro racconti, i loro auguri e mi chiedono suggerimenti su come fare a superare le tragedie della vita. Ahimè. A 92 anni ancora non so cosa rispondere. Dico loro di sperare. Di battersi per vivere in un mondo senza guerre volute solo da capitani ansiosi di medaglie. Di sorridere senza il rimorso di non aver aiutato nessuno. E proprio questi giovani sono una grande, meravigliosa, consolazione. Il segno che qualcosa di ciò che hai fatto ha lasciato un piccolo segno, un piccolo seme. ( F. Pivano, dal  suo ultimo testo scritto per il Corriere )
 
Ho sempre cercato di non far assomigliare questo blog a un seguito di necrologie o a un cimitero. Tuttavia non posso non segnalare, non onorare, a modo mio, la scomparsa ieri sera di Fernanda Pivano alla quale, in parte, debbo il mio amore per la letteratura e la scoperta dei « libri di vita » che venivano dall’America. Fu uno dei miei primi incontri meravigliosi  quando giovanissimo, nel 1967, scoprivo  nella casa di Nanda in via Manzoni, dove si era da poco trasferita con Ettore Sottsass, un angolo di Milano colta e cosmopolita. Per il resto, la città – a parte gli ultimi fuochi « esistenzialisti » del  quartiere dei pittori di Brera e le case degli amici – era piuttosto inospitale, specialmente per gli autostoppisti, i ragazzi che viaggiavano,  i cosiddetti « capelloni » che  senza ricerche estetiche, formali, soltanto con ansie umane e rinuncia a corazze e difese, inondavano la casa di Nanda i di manoscritti, di disegni coloratissimi e di poesie, ansiosi di sapere tutto su quel caldo venticello erotico che soffiava dalla costa ovest degli Stati Uniti, sugli hippies  e sulla “beat generation” – della quale la Pivano, americanista allieva di Cesare Pavese, aveva tradotto i libri in italiano e della quale era amica personale (dopo esserlo stata di Ernest Hemingway, di Francis Scott Fitzgerald, di Henry Miller, di Gore Vidal, eccetera – al punto da esserne diventata – come dirà qualche iena del piccolo mondo letterato italiano, medio-italiano, « la sempiterna groupy » ). Come scriverà Seymour Krim, si trattava di “letteratura di protesta, nuova, folle, stramba cupa onesta liberatrice. ”
A interessare Nanda era anzitutto la letteratura che parte dalla vita e la promessa di un reale più largo che si trova nei libri – perlomeno nei  « libri di vita » degli scrittori decisivi. “In fondo – scriverà Nanda – anche i miei entusiasmi o quelli che furono chiamati i miei fanatismi non erano né per le persone che stavano davanti a me né per quello che mi poteva succedere intorno, ma per quello che persone ed eventi, parole e canzoni, costumi e fallimenti potevano significare nel presente e nel futuro (voglio dire politicamente e sociologicamente, oltre che esistenzialmente). E il mio lavoro non consisteva nel dare manate sulle spalle, neanche nel fumare hashish o scopare in tenda, ma consisteva nel capire e trasmettere (quando ne ero capace) i significati politici e sociologici, le speranze e anche le delusioni e i disastri esistenziali delle energie generazionali che mi circondavano” (Pivano F., C'era una volta un beat, Roma, Arcana, 1976 p. 98 ).
“La nuova libertà era il decondizionamento globale fino all'irresponsabilità: la vita del desiderio sprigionata in un annullamento totale di Super Io o di qualsiasi vincolo o controllo, unica legge l'energia vitale, unico stimolo l'amore della vita, unica realtà l'ansia di sopravvivenza, senza posto per la scalata al potere, per la competizione economica, per la preoccupazione per il futuro…( C'era una volta un beat, op. cit., p.11).
Fu un disastro. Specialmente per i tanti giovani drop out, esistenze erranti che spesso finivano interiormente disfatte dalla droga. Ben presto, già l’anno dopo, nel 1968, la « contestazione » era diventata ideologica e neoviolenta. « Nel dicembre 1968, – scrive Fernanda Pivano – quando Ravi Shankar è venuto a Milano, il loggione del Lirico sembrava una sala d'aspetto di autostoppisti, ma di quelli seri, che fanno l'autostop da Milano a Calcutta con diecimila lire in tasca quando tutto va bene. Si rivedevano in piccole serie i capelli lunghi e le casacche, ormai sommersi nelle strade dalle barbe alla Fidel e i golfini contestatari, e per l'occasione i neoviolenti, anche loro ammassati in loggione, riprendevano con gli antichi amici pacifisti il discorso troncato mesi prima dalla piroetta con cui le metodologie partitiche sono riuscite a inquadrare l'ambita massa preelettorale trasformando in greggi violenti ma controllabili e schedati le incontrollabili tribù pacifiche ma mobili »( Pivano F., Beat Hippie Yippie, Roma, Arcana, 1972, p. 194. Per una più approfondita analisi delle vicende del beat italiano e del suo contrasto con la dimensione politica si veda C'era una volta un beat, op. cit., ristampato nel 2003 da Frassinelli).
A differenza che in America, in Italia, a parte qualche rara eccezione ( come « Paradiso delle Urì » di Andrea D’Anna) non accadde niente di simile alla controcultura americana. I giovani italiani non viaggiavano, non molto, e a casa di Nanda e di Ettorino ( così lo chiamava lei), quando non erano in viaggio a Bali, arrivarono giovani e giovanissimi sottoproletari fuggiti da casa, studenti marxisteggianti con barbe alla Fidel e situazionisti con molti occhiali – reduci da una scodizolata attorno a Umberto Eco ( per farsi pubblicare il libro) o da qualche happening nel varesotto.
L’Italia era stretta tra la DC degasperiana e il PCI ancora stalinista. Allora se un giovane americano apriva le finestre vedeva grandi spazi, le Montagne Rocciose; se le finestre le apriva un giovane italiano, cosa vedeva? La canottiera del vicino di casa, rintanato in pochi metri di autonomia individuale, rigorosamente sorvegliato dai vicini di condominio, mentre l'espansione della tecnica prometteva il comfort illimitato e crociere da sogno immaginarie. Esisteva, inoltre, tutta una cultura della contestazione di ascendenze strutturaliste e marxiste, un apparato teorico davvero intimidente per un giovane che avrebbe voluto « contestare ». Infatti, nel novembre del 1967, partii per il Marocco e poi per l’ india, alla ricerca di « tribù pacifiche ma nomadi… », iniziando una corrispondenza con la Nanda – con la quale ci rivedemmo nel 1975, frequentandoci fino a pochi anni fa… Quello che resta di più nella mia memoria è però il primo periodo, gli anni sessanta, quando eravamo tutti giovani e belli, pieni di fiducia, pieni di entusiasmo, e credevamo nelle utopie, pensavamo che le utopie si realizzassero e sognavamo di poter superare per magia la barriere  delle classi, dei sessi, delle lingue, realizzare la comunicazione a tutti i livelli per un reale più largo…
  … Cara Nanda, sono tracce di energie che potremmo chiamare, banalmente, generazionali. Intere vite di energie che sembrano essere fluite in pochi istanti… Forse credevamo di esserci “accesi” e di poter ardere senza bruciare. Ma eccoci di nuovo al lavoro, come dicevi l’ultima vosta che ci siamo sentiti, due anni fa, per gli auguri del tuo novantesimo compleanno. Al lavoro, facendo la spola tra il Dentro immenso, dove non abitiamo, e il Fuori impossibile. Nel tentativo di aprire una breccia, un passaggio dall'uno all'altro. Resta il tuo fare essenziale, la tua colpa maggiore e il motore dell'atto di scrivere su quel tuo quadernetto di ragazza che diceva di credere nell’amore, la pace e i fiori. . Tutti lasciamo una macchia, se questa è una macchia. Sono equilibri molto sottili, relazioni molto sotterranee, è il nostro underground invisibile . Il mondo non è in pace, l’amore è ancora inappetenza e crimine, e chissà dove sono finiti i fiori… Però risorge, anche grazie all’amore per la letteratura « della vita » che hai trasmesso ai tanti che ti hanno amato ( sebbene tu non fossi propriamente  « l’angelo degli scrittori», come con qualche esagerazione new age ha scritto qualcuno). Sapevi essere leale, generosa, tenera ed aspra, oltre che garbatamente ironica. Grazie Nanda. L’aria è piena di tuoi ricordi.
  

 
Nella foto, Fernanda Pivano ( a dest.), Mario Spinella, Gianni De Martino, alla discoteca Rolling   Stones di Milano, nel mese di aprile del 1988, durante la presentazione della collana mondadoriana Mouse to mouse di Pier Vittorio Tondelli. ( Foto di Vittorio Pescatori).
CITAZIONI ( LETTERE D’AMORE)  DI FERNANDA PIVANO
"Nell'aereo, sui cieli d'America cantati da Ginsberg e le strade lontane cantate da Kerouac, il manoscritto pesante sulle ginocchia, emozione quasi insopportabile, fantasmi di vent'anni consumati in sogni patetici, libertà e non violenza, disarmo e comunicazione, cittadini del Pianeta e nomadismo senza frontiere, uguaglianza di razza di sessi di classi, melanconici sogni senza teoria, fragili sogni senza ideologia, superingenui sogni senza Avidità di Potere, cantati da prose e poesie, proposti da un Nuovo Stile di Vita, vissuti da paladini innocenti di Spontaneità e Disinibizione, Comunicazione e Energia Vitale, cavalieri senza macchia e senza paura contro i draghi moderni di Super Io e Conformismo, Alienazione e Consumismo, Bomba Atomica e razzismo, teneri corpi capaci di amore senza sesso e di sesso senza amore, librate profezie per una Consapevolezza pubblica ancora incatenata a McCarthy, soffici immagini di salvezza per i cittadini del Pianeta imprigionati nelle Banche, per lo Spazio del Pianeta devastato da ordigni di guerra, per il Pianeta annegato nel petrolio, genocidi e defoliazioni, massacri di massa e Apocalisse moderna, Età dell'Acquario e Kali Yuga…" [F. Pivano, Prefazione, in J. Kerouac, Visioni di Cody, Milano, Arcana, 1995, pp. 17-18 (I° ediz., Roma, Arcana, 1974)].
"Il piccolo borghese americano, che si sente tanto sicuro e potente perché ha quell'automobile frigorifero lavatrice televisione alloggio come tutti, in realtà è solo indebitato fino al collo per pagare le varie rate con cui se li è procurati; ed appena finite quelle, le rate ricominciano, perché automobile lavatrice frigorifero televisione alloggio saranno da cambiare. Allora va a vivere in provincia, dove 'la vita' costa meno e le tentazioni di spese superflue diminuiscono: si alza alle sei di mattina per prendere il treno e andare al lavoro, ritorna alla sera alle sette intontito da una giornata passata a fare un lavoro qualunque (al quale non partecipa se non in vista dello stipendio che gliene deriva), per riprendere forza beve un po' di alcool (poco, perché costa caro), mangia una polpetta di carne ai ferri a una tavola non apparecchiata (o addirittura su vassoi di stagnola riscaldati nel forno e tenuti sulle ginocchia) e guarda la televisione; finché va a letto estenuato, annoiato, immeschinito, smidollato, rintronato dalla martellante propaganda televisiva verso nuovi sogni rateali, nuove schiavitù, nuove miserie camuffate. Ma convinto che il suo sia il migliore dei mondi possibili." [F. Pivano, Introduzione, in A. Ginsberg, Jukebox all'idrogeno, Parma, Guanda, 1992, pp. 14-15 (I° ediz.  Milano, Mondadori, 1965)].
 "Da Melville a Hemingway, da Masters a Anderson, dalla Stein a Kerouac non sono mai riuscita a lavorare a freddo; d'altra parte il mio lavoro non ha mai avuto pretese scientifiche, ma solo l'umile desiderio di aiutare i lettori ad accostarsi ad autori non ancora famosi tra noi, che mi affascinavano per il loro sforzo di svincolarsi dall'apatia del conformismo affrontando i rischi dei non rinunciatari e segnando, a volte inconsciamente, una svolta nella storia della narrativa […] I miei saggi sono stati soltanto lettere d'amore; se in passato hanno scosso dall'indifferenza qualcuno e lo hanno indotto a interessarsi a qualche scrittore, hanno raggiunto il loro solo scopo." [F. Pivano, La balena bianca e altri miti, Milano, il Saggiatore, 1995, p. 484 (I° ediz.  Milano, Mondadori, 1961)].
 
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