INEBRIATEVI !
«Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell’amore. Amore è “estasi”, ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio. L’amore non è mai “concluso” e completato; si trasforma nel corso della vita, matura e proprio per questo rimane fedele a sé stesso».
(B16 – Benedetto XVI).
In effetti, le piccole idee dominanti sulla relazione con se stessi, con gli altri e con l’universo, sono perlopiù anti-estatiche e difensive: appuntite foreste di difese nella cultura superiore e, talvolta, aggressive tagliole pronte a scattare nel vivo di un soggetto. In fondo, neanche tanto in fondo, uno delle possibili definizioni della crudeltà è proprio l’applicazione pratica, tecnologica, burocratica e necro-economica di tante “procedure” mutuate dalle piccole idee sulla relazione con se stessi, con gli altri e con l’universo. Le piccole idee sempre più spesso si trasformano, a lungo andare, in amarezza; e talvolta in umore massacrante. In una mescolanza d’impotenza effettiva e di affermazioni trionfali, specialmente se nutrite di risentimento e ideologicamente confezionate ad uso delle moltitudini, l’umore massacrante può più facilmente trasformarsi in depressione generalizzata, dunque molto democratica, oppure in una furia che, compressa nell’individuo, si dispiega a rottadicollo anche sulla società. Donde i disastri che coinvolgono sobri e ubriachi. Infatti. Sobri o ubriaconi, si può fare una fine balorda comunque.
“La crudeltà è l’applicazione pratica di un’idea”: sentenziava, ad esempio,rocamente Artaud, che di disastri se ne intendeva. E, non a caso alle soglie della disperazione di massa dei tempi moderni, Baudelaire sostiene, in corrispondenza con la propria epoca e quelle a venire, che “bisogna sempre essere ubriachi”. Tutto qui: come se fosse l’unico problema. Il problema, o piuttosto la spina del divenire, si direbbe; e cioè dell’essersi ritrovati, volenti o nolenti, creature come “tagliate” dal prima e dal dopo, consegnate da lontano al Tempo, come se il Tempo fosse un grande tutore più o meno benefico o una vera risposta.
Tempo e Spazio, sono forse una risposta? Baudelaire scrive che bisogna “sempre” ubriacarsi “per non sentire l’orribile fardello del Tempo che vi spezza la schiena e vi tiene a terra”. E che “dovete inebriarvi senza tregua. Ma di che cosa? Di vino, di poesia o di virtù : come vi pare. Ma inebriatevi . E se talvolta, sui gradini di un palazzo, sull’erba verde di un fosso, nella tetra solitudine della vostra stanza, vi risvegliate perché l’ebbrezza è diminuita o scomparsa, chiedete al vento, alle stelle, agli uccelli, all’orologio, a tutto ciò che fugge, a tutto ciò che geme, a tutto ciò che scorre, a tutto ciò che canta, a tutto ciò che parla, chiedete che ora è; e il vento, le onde, le stelle, gli uccelli, l’orologio, vi risponderanno: ‘E’ ora di inebriarsi !’. Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, siate ebbri, inebriatevi sempre! Di vino, di poesia o di virtù , come vi pare“.
Anche il termine “amore”, oggi così banale, se non banalizzato, sembra rimandare a una ubriacatura di gioia, a una gioia estatica profondamente sepolta nel sistema nervoso, nell’anima e nello spirito; ma tuttavia temuta per paura di quella “gioia eccessiva”, di quella eccedenza quasi-mistica che forse è un tratto ineliminabile di ogni vita umana e comunque costituisce certamente uno dei segreti del linguaggio.
D’altra parte, è anche vero che non è possibile vivere sempre “fuori”. Non dico sempre fuori di testa o di melone, ma “sempre innamorati” ( come Platone diceva di Socrate). Che venga il tempo in cui ci si innamori! ( Rimbaud). Ma forse, chissà, neanche essere “sempre innamorati” di poesia o di virtù è una condizione augurabile. Eppure, vivere, solo vivere ed essere felici, non soffrire più, sembra ancora essere il sogno più bello e più crudele che ci sia.
Forse perché l’amore costituisce il più grande ed efficace anestetico finora conosciuto? Questione essenzialmente di fede, suppongo: fede nelle virtù del vino e di quell’impossibile che è il reale dell’amore. Aver fede nel pane, nel vino e nell’invisibile è un passo, al limite, impossibile. E’ sempre troppo tardi, perché l’orribile è già accaduto e occorrerebbe essere un sopravvissuto con una bella faccia tosta per citare Hegel a quelli che bussano davanti a tante porte chiuse, a quelli che muoiono nell’angoscia da vicino o, più spesso da lontano, a quelli che perdono per sempre le persone amate, i quali sanno, senza che il loro sia un sapere, che la verità della quale sono certi, e sulla quale non trionferà alcun sistema, è che il tempo che li dispera è privazione e strazio, e non oltrepassamento dialettico.
D’altra parte, per aver fede nell’invisibile è sempre troppo presto, perché l’orribile non può essere così orribile come raccontano certi sopravvissuti, e che quindi – dal momento che, sia pure tremanti, malmessi e balbettanti, i testimoni dell’orrore sono ancora vivi – nessun Forno o Cosa ardente e come proveniente da chissà dove, è mai avvenuto. Invece che perdere tempo con quelle “enormità”, si pensa allora che, al massimo, così come al limite, ci si potrebbe accontentare di un po’ di conoscenza, qualche cinica speranza e magari anche di tanta tanta carità pelosa. Ma dove sono più quegli spettacolari esemplari di lebbrosi di Calcutta, dei quali le istituzioni e i dibattiti in tv hanno sempre più bisogno per far vedere agli utenti come si fa ad esercitare in pubblico e al più alto grado la famosa carità pelosa ?
L’amore è impossibile. E’ impossibile che dove rosseggia il Forno, l’amore faccia spirare un gentile venticello che lo spenga, magari sotto una rinfrescante e salvifica pioggia primaverile. E’ impossibile anche che dove il pensiero fabbrichi l’abisso e il gorgo che ci avvinghia, un amore esca finalmente dalle fosse, dalle tombe e dai tombini – e con un balzo scavalchi quell’abisso. Sarebbe troppo bello! E ancora: se invece di soffiarci tanti petali di fresche e vere rose sulla faccia, quel risorto, quella specie di vampiro, quel “ladro di energie” saltasse su tutto occhi e muffa? Meglio non rovistare tra la polvere di quello che una volta era chiamata Pasqua, correndo, oggi, il rischio di essere scambiato per un figlio di Ruini, il cardinale, e comunque fare la brutta figura di un ritardatario che, in tempi di Disneyland planetaria e transmoderna, si ostini a voler mostrare a tutti e fin nei blog e l’infosfera, la santa croce che, fin da bambino,i genitori e i cari padri salesiani, gesuiti o barnabiti gli hanno messo sulla gobba.
CRA CRA CRA. Chi gracchia? Ma perché non appena bevi un goccetto deve apparirti sempre, o quasi sempre, questo triste cimitero tra le nebbie ? Dunque l’amore non sarà mai altro, per te, che un orizzonte piovoso ? Ma a che servono allora i fiori e le parole – tutti quei fiori verdeggianti e le tante promesse che ancora risuonano nelle stupide e vere canzoni d’amore?… Dove siete, innamorati? Afflitti da inappetenza e crimine, oppure a pattinare, a coppie e tenendovi per la manina, su lucide lastre di ghiaccio in tv, attenti come piccole volpi a ogni minimo schricchiolìo? Chissà se anche voi, come certi poeti, seguite lo sguardo di Dio, chiedendovi “un attimino”, come dicono i ragazzi, perché e da quanto tempo, il Boss ha distolto lo sguardo da noi, che eravamo la Sua più grande promessa.
Non chiedete solo ai poeti e agli ubriaconi, ma “chiedete al vento, alle stelle, agli uccelli, all’orologio, a tutto ciò che fugge, a tutto ciò che geme, a tutto ciò che scorre, a tutto ciò che canta, a tutto ciò che parla”, chiedete non tanto che ora è, e neanche chi o che cosa ha voluto che la vita imputridisse, insieme alla stessa idea di vita. Chiedete piuttosto a tutto ciò che fugge , canta o geme, chi avete veramente amato; e il vento, le onde, le stelle, gli uccelli, persino l’orologio vi risponderanno: ” E noi che ne sappiamo, sei tu il solo a saperlo”. Insomma, si muore soli. ( Checché ne dica quel compagno progressista & amareggiato, che per il suo suicidio, pardon, “per il suo scatto di volontà” ( i comunisti, non si suicidano, hanno solo scatti di maschia & dignitosa volontà) ha convocato tanti altri vecchi stronzi in una lussuosa clinica svizzera, dove tra pareti tappezzate di tanti poster di Che Guevara, i pugni chiusi e il canto “Oh Bella ciao” nessuno ha avuto il coraggio, davvero democratico, di procedere a una sana & democratica collettiva eutanasia). Eppure, chissà perché, sono tante le creature che ci credono capaci di salvarle, e che da ogni parte ci sollecitano, pur essendo, anche noi poeti & letterati, avviati, come tutti, verso il solito naufragio e un brillante avvenire di scheletri. Tutti gli scheletri, compresi i nostri, prima o poi verranno abbandonati. Tutti siamo stati abbandonati alla terra, all’acqua, al fuoco e all’aria, anche se abbiamo voluto dimenticarlo. E, se poeti & letterati, cos’altro potremmo offrire a chi sta per affogare se non qualche pezzetto di carta assorbente? Ma che si asciughino, perlomeno! Allora perché tanta sollecitudine ? Forse perché, una volta ascoltato, sia pure fugacemente e nella solitudine assoluta, l’appello dell’invisibile dell’amore, a nessuno basta morire da lontano.
Né parole né carezze, fossero pure quelle di un papa, salveranno non dico l’occidente dal quale vi scrivo o l’oriente in pieno marasma, ma neanche questo pianeta in bilico in vertigini di stelle. Tuttavia non si sa tutto, non si sa mai. E’ quello che sempre più spesso sento mormorare non solo agli astronomi e agli astrologi diplomati, ma anche ai cosiddetti pazienti in ospedale.
Dopo essersi aggrappati alla radiografia, cadono in ginocchio, giù di botto, come quegli splendidi appestati che si vedono negli antichi quadri. Non so se gli antichi quadri ci salveranno dalla peste nichilista e post-moderna post-mortem e post-trans-tutto. In ogni caso, il loro mormorare “non-si-sa-mai”, aggrappandosi un po’ alla radiografia e un po’ alla cristalloterapia, si comunica alla flebo, alle lenzuola troppo bianche e alla finestra. Da lì, il mormorio si comunica alle nuvole, al sole, alle stelle dietro il sole e a tutti i pianeti dell’universo o multiverso: “N-non v-oglio m-morire”. E dire che questi pazienti appartengono, nella maggior parte dei casi, alla mia generazione: quella che fra molta arroganza e sacchi a pelo diceva di voler rinunciare a Dio e ai dèmoni del Novecento, finendo poi con l’affliggere il mondo con una pletora di angeli new age, tutti rigorosamente molto spirituali, in pratica creature senza culo. Per non dire poi di quei pazienti che, tra una flebo e l’altra, chattano in rete chiedendo maggiori chiarimenti sulla famosa profezia Maya di cui ormai si mormora, a gran voce, in tutti i pisciatoi della Galassia. Non è meraviglioso?
Ma forse le tante stelle che questa notte brillano chiare, quasi frenetiche, lassù sul soffitto del covo dell’ubriacone, non sono stelle. Dunque si va. Si va tra culla e bara. E non è sul soffitto stellato, ma cadendo proprio fra le due forse inevitabili “pulsioni” che viene la parola. Viene da un tetto aperto, un uscio semichiuso, una finestra scomparsa al battito di un cuore, di innumerabili cuori che battono. A portare la parola, non ancora l’olio santo, è un gesto, lieve, di poesia – raro, come qualsiasi altro raro gesto d’intelligenza, d’amore, di compassione o di pietà. Le parole sono venute. Tambureggiando, galoppando, e mentre alcune parole che sembravano promettere chissà cosa sono scomparse e poi ritornate vuote, cave e smemorate come disertori, altre parole, meno bagnate e più alate, più fedeli, sono rimaste qui a mormorare a bassa voce, quasi senza voce, nel timore che tutto possa perire, tutto rifiorire. Dove la voce cade, il mormorìo delle parole, forse una preghiera, non guarisce dal male, sebbene talvolta sembri salvare perlomeno dalla disperazione.
O delizioso liquore che, essendo impegnato a fare il surf su cavalloni immensi, non ho bevuto e forse non berrò mai. Sei tu, acqua chiara, a suscitare le estasi dei santi e, se bevuta a garganella, a provocare ebbrezze criminali agli sprovveduti ? Come le idee più chiare, brillanti su sfondo oscuro, anche le acque chiare nascondono chissà quale profondità abissale. Insomma, le parole non guariscono e non asciugano tutto quel sangue né tutte quelle lacrime dagli occhi che hanno pianto, non sempre. Ma vengono a dire, ridire l’inaudito.
Indicando la tomba vuota e suggerendo che non resta che imparare ad amare e a morire, come tutti, una parola dice che vita e morte hanno uguale durata. E che senza le nostre bizzarre irragionevolezze, tanto necessarie alla vita, avvizziremmo come pesciolini fuor d’acqua, ridotti a rigidi stecchi di sola ragione. Sembra una parola viva, guizza su come un piccolo pesce e subito s’inabissa in non so quale profondità suprema. Non so se diffidare di certi strani pesci, ma nel dormiveglia pareva che sul dorso del cosino guizzante brillasse la scritta (Iota Chi Theta Upsilon Sigma), aureolata da uno splendore che, simile a quello di una perla, sembra appartenere e non appartenere al mondo.
Ichthus ? Un momento. Se fosse possibile dire una parola all’invisibile o a quello che in narrativa per tranquillità chiamiamo l’inconscio, gli chiederei come mai doveva venire proprio a te questa specie di ictus celebrante. Forse le profondità marine non sanno che lo scrivente è solo un povero mozzo di bordo, questa notte in servizio presso l’Olandese Volante. Non so se ti basterà fingerti il mozzo di bordo, per evitare la radiografia. In ogni caso, per quanto impossibile possa apparire, è proprio all’impossibile che l’uomo, il parlante, è tenuto. A fratello Charles Baudelaire non venne forse l’afasia, proprio dopo il passaggio dell’ala sottile dell’Angelo, da lui scambiata per “l’ala dell’imbecillità che passa”. Eppure la Gloria, a un tempo luce e destino, resta nel sale e la rilegatura o impaginatura delle tue ossa, per sempre. Laggiù, al cimitero del Père Lachaise e tanto traffico di automobili clacsonanti, disperanti.
Ancora una parola. Chi coltiva l’embrione dell’angelo, e poi crede di poter pisciare il “corpo di gloria”, a ondate, fuori di sé, si spegne come una candela. Chi nasconde il proprio pesce naviga senza mare, come quei falsi marinai & falsi pescatori di perle che non si sono mai veramente imbarcati. Chi nasconde la propria imbecillità non è un vero poeta e chi occulta il proprio folle amore muore senza voce. Il furbacchione credeva di poter ardere senza bruciare. Occorre bruciare per dar calore agli altri. E sebbene si possano anche chiedere dei sacrifici, occorre dire che ogni azione è rischio. E che se non diventi cenere, mai risorgerai con la Fenice. Gesù! Qui , su questa splendida galera volante, siamo, al momento, vivi per una “e”: un quasi nulla che in un soffio e fino alla perorazione del soffio infinitamente riprende, tra i due, tutto quello che è perso. Fuori da questa fossa, dunque. E, da bravi pirati della Filibusta, nei momenti festa – se non siete al timone o di guardia agli scogli del mar dei Sargassi o agli iceberg dell’isola italiana dei Gigli – ubriacatevi! “A proposito, pesciolini, qui c’è speranza di bere qualcosa?”
È il caso di uno splendido e immenso libro appena uscito: Il grande racconto delle stelle (edito dal Mulino, con 615 pagine e 256 illustrazioni), dove Piero Boitani racconta tutto quello che è stato immaginato sulle stelle, i soli, le galassie, le lune: romanzi, poesie, musica, pittura, filosofia, astronomia, dall’ Iliade a Wallace Stevens e Paul Celan; in qualsiasi lingua, anche in quelle orientali che gli sono meno familiari.