L’ULTIMA LETTERA DI VLAD
Atto unico di Gianni De Martino
PERSONA: Dracula. Poco più che trentenne. Un corpo nell’atto di scrivere. Si muove a tastoni e si regola sul testo, che appunto sta scrivendo. Voce viva, concreta, gradevole (in ogni caso nulla che spaventi).
AMBIENTE: La prigione della Torre.
COLONNA SONORA: Qualcosa come “Casta diva”, V. Bellini, ‘Norma’.
Ambiente
Dracula ascolta, con agitazione crescente, una musica che evoca il sorgere della luna.
DRACULA: (riflessivamente) Ah, la luna, sorge la luna… (Pausa, poi, bruscamente) Il mio quaderno, presto il mio quaderno! E’ bene che io registri questo. (Andando verso la macchina da scrivere) Il mio quaderno! (Scandendo le sillabe) E’ bene che io registri questo.
(La musica cessa. Dracula si siede e comincia a battere). Che dirà il caro Wolf, il mio fedele e devoto gobbetto, quando udrà la morte del suo Dracula? E per le voci che questa notte circolano nella Torre non tarderà molto la novella; perché all’alba entreranno nella cella dove mi hanno gettato e (sarcastico) nel chicchirichì di tutti i variopinti galli d’Ungheria spalancheranno la finestra sul sole. (Indietreggiando, istintivamente) Ah, il grande sole mentitore, l’arcobaleno in una stanza e la fastidiosa luce che m’uccide. (Pausa) Quasi rapido torrente d’improvviso splendore, del quale, senza poter aver alcun appiglio, vedo chiaramente smagliarsi l’ombra mia.
(Pausa. Norma intona, a questo punto, il canto ” Casta diva”. Dracula ascolta. La musica cessa. Dracula ricomincia a scrivere e fa schioccare la lingua)… E per le voci che questa notte circolano nella Torre non tarderà molto la novella…
(Pausa, poi come allargando le braccia). Volevo parlare dei nemici impalati nella pianura che si estende dal Danubio al confine rumeno, e (sognante) del vento che percorre i campi di sangue sollevando nubi gonfie di sabbia e avvolgendo in un polveroso… polveroso?… roso mantello i turchi che si ritirano verso Stambùl; ma non è più tempo ch’io parli delle guerre combattute e della sfortuna, per non dire delle infami leggende che si tramanderanno con la la … pretesa di aver fatto finalmente (ironico) chiarezza; né delle menzogne che di me racconteranno (con disprezzo) tremebondi testimoni incappucciati. (Si volge alla macchina da scrivere, come dettando a se stesso) Non è più tempo ch’io parli dell’ingratitudine del mondo, la quale ha pur voluto aver la vittoria (con rabbia) di rinchiudermi in una fetida ed estranea prigione ; quando io pensavo che quei servizi che avrà questo secolo del mio lavoro, non fosse per lasciarmi in alcun modo senza ricompensa.
(Pausa, sorride tristemente impotente; poi, ricomincia a dire piano, come dettando a se stesso). Trame politiche, lo avrai saputo, e congiure dinastiche hanno deciso la mia sorte. Da alleati qual erano, Papa e Re son diventati i miei persecutori; e (pensoso) altro ormai non potrà più fare il buon cardinale, dai cui passi per la revisione della sentenza mi aspettavo qualche vantaggio e protezione. (Pausa) E che ora tace, imbarazzato, forse per ordine del papa (con crescente disprezzo) quel piccolo satrapo indifferente al mio caso e malvagio unicamente per noia o per presunzione.
(Si alza, come rivolgendosi a qualcuno apparso improvvisamente nella cella) Allora, hai finito di masturbarla questa supplica del buon cardinale, o non ancora? Datti una mossa, Santità, e cagala sulla mia bara, hai capito? Che prima lo fai e meglio è per te.
(Pausa) Tutti (si siede, trattenendo a stento la rabbia) tutti han creduto alle terribili leggende che i compagni di un tempo (con disprezzo) i pentiti hanno diffuso sul mio conto, fino a quella notte di vento e di neve in cui mi gettarono, con tutte le mie carte e i venerati libri di Alchimia, in fondo alla prigione della Torre: nel buio dove centinaia di topi mi circondano; e la ragione vacilla, in attesa d’esser rapito dalla luce di una morte che ora mi è chiara come il sole.
(Pausa, poi, cambiando tono, come guardando uno a uno gli oggetti che nomina) Sai dove siedo, io? Il mio sedile è l’incavo fetido d’una vecchia tomba; la mia scrivania il dorso d’una pietra tombale caduta, resa liscia dalla devastazione dei secoli; il mio unico lume è il chiarore della candela e tuttavia vedo chiaramente, come se fosse mezzogiorno, anche negli angoli più bui e lontani. (Pausa) Nella scrittura continua la mia visione di tanti bei corpi addormentati. (Pausa) Li vedo tutti sospesi nell’effimera danza tra la vita e la morte, tutti giacere su un letto di spine; e uno strano affetto mi coglie, simile a un dolore lancinante.
(Pausa, poi, gridando, in falsetto) “Male al cuore? Serve sangue?, chiedono i miei guardiani”.
(Si alza) Le voci risuonano ironiche, rimbombano. (Porta le mani alla testa) Anche adesso ridono della mia terribile sete di altro latte, altro inchiostro. (Pausa) Aaaah. (Si passa una mano sul viso) Sono tutto unghie e denti. (Pausa) E’ così improvvisamente vuoto ciò che mi circonda.
(Pausa. Siede alla macchina da scrivere. Controlla il nastro) L’inchiostro è finito. Non me ne daranno più. (Gridando, in falsetto) “E’ tardi”, dicono. ” E’ giunta l’ora in cui ci libereremo di te, parassita sporco e immondo”. Allora scrivo col sangue che mi è tolto. E la scrittura, come la morte, riempirà i buchi…
(Volgendosi alla macchina da scrivere) Ascolta, Wolf, amico mio, non senti soffiare anche tu un vento terribile,
sentimentale, che mi fa ammalare, ci farà ammalare tutti, di peste, forse.
(Ricominciando a battere, ma contrariato perché l’inchiostro probabilmente è sbiadito) Che cosa sarà di te? Ti lasceranno almeno la tua abitazione, almeno la tua camera? O forse hanno già bruciato tutto e tu vaghi ai limiti della foresta, in attesa di avere notizie della mia sorte, notizie che forse non ti arriveranno mai? (Pausa) Tristi pensieri! Tristi immagini!
(Come volgendo il capo verso il fondo della cella, alludendo ai guardiani e come prestando orecchio a delle voci) E’ gente amara, (si alza) quella, il loro riso è vuoto. E anch’io rido. Di me, di loro, i guardiani. Rido giù per il grugno… Ah!… così. Come se mi sentissi dolcemente azzannare rido – silenzio, prego – dell’infelicità. (Si siede) Un tremito si comunica alla mano che scrive, alle pareti della cella, alla luna, alle stelle… ai pianeti. Sì, tutto l’universo vacilla come la fiammella (come avvicinando una mano a una fiamma che non c’è) tiepida e dorata di questa candela.
(Pausa) Tante ombre tremano sull’ultimo foglio e il suo biancore.
(Sarcastico) Tante ombre al guizzo della morente lampada, ma non la mia – tutta racchiusa in me, come vorrebbero i calunniatori, privo come sarei d’ombra e di riflesso quasi fossi una lucertola, o un pesce…
Ma tu (come parlando al suo invisibile corrispondente) tu mi ricordi con un’anima e un corpo. (Si alza). Mi hai visto coi tuoi occhi levarmi davanti a te come non mi leverò mai vivo nella memoria dei posteri, per i quali non sarò che un fantasma tremolante sulle rive dei loro sogni. (Camminando con crescente agitazione) Tu mi hai visto levarmi vivo, con un corpo vibrante come una bandiera sotto il cielo dei campi di battaglia, energico, pieno di vigore, infaticabile nei miei quotidiani sforzi di respingere le armate dei barbari oltre il Danubio, al servizio del Re e del Papa, del Papa, sì (sarcastico) che allora non mi chiamavano “vampiro”.
Mi ricordi forse senza ombra? E ti ricordi come correvo, quel giorno, come un giovanotto, quel giorno di aprile pieno di sole che ti lasciai in asso col martello a verificare le artiglierie, e poi andando io stesso a raccogliere un pezzo di cannone che mi pareva dubbio?
(Sognante, ritornando alla macchina da scrivere) Ero un guerriero sfolgorante di gioventù e di freschezza; e ora, (abbassando la voce) esiliato da una vita tangibile e vibrante, corro dietro ai fantasmi della mia identità passata… (Riflessivamente) Corro su anelli di pitone nero di scrittura… al buio e nell’immobilità di una fredda cella, dove i guardiani mi privano persino dell’ombra e per derisione mi obbligano a calzare (trattenendo la rabbia) lucide ciabatte di donna.
(Pausa) Maneggiavo la spada, e ora tasto solo una sudicia penna, avendo persino perso la consapevolezza del mio proprio corpo. Guardo le mie mani (esita) sembravano linee colme di fuoco… sono solo inchiostri che sbiadiscono col tempo. (Pausa). Ti faccio segno, fedele amico, dal capolinea, parcheggiato sull’orlo della fossa che hanno voluto spalancare sotto la mia vita e l’opera … qui dove la morte… s’annuncia nel moltiplicarsi dei riflessi e si dilata in una tenebra senza visibili confini.
(Pausa. Il Coro riprende le note di “Casta diva”. Dracula resta pensieroso; poi parla improvvisamente animandosi e quasi mimando le scene che descrive). Ti ricordi come mi vide quello sciocco di Jonathan Harker, il robusto e goffo impiegato giunto in missione al nostro castello? Non trovando traccia né di campanello né di picchiotto, levò lo sguardo verso le mura e le negre aperture delle finestre, sollevandosi in punta di piedi, come se avesse voluto lanciare una voce, che non usciva, di là da quelle mura mai esistite, se non (ironico) nella sua testa nebbiosa. E che sforzi faceva per svegliarsi dall’interno del suo proprio sogno ! (Pausa) A che razza di luogo era mai approdato, e tra che gente? Si aggrappava, agitandosi come un pollo addormentato, al trespolo della propria identità. Ripeteva (si alza), ipnotizzato da se stesso: “Impiegato di uno studio legale! A Mina la definizione non piacerebbe. Procuratore legale, piuttosto!”. E cominciava a fregarsi gli occhi e a pizzicottarsi per vedere se era sveglio. (Sorride, ironico, come se lo vedesse; poi riprende a raccontare) Noi lo osservavamo, per un tetto aperto, una finestra scomparsa. Le nostre mani gli gettavano ritagli d’unghia, torsoli di mela, croste di pane. (Come volgendo lo sguardo al foglio infilato al rullo della macchina da scrivere) Pezzetti di carta dove non c’è mai scritto niente. E quando bastò un niente per aprire la porta, mi vide.
(Pausa, assumendo l’aspetto di ciò che descrive) Alto, vecchio, accuratamente sbarbato a parte i lunghi baffi bianchi, e nerovestito da capo a piedi, senza una sola macchia di colore in tutta la persona.
(Pausa). Cosa vide? (Afflosciandosi improvvisamente, con tono spaventato) Solo una vuota cornice di spavento. (Pausa, poi, con tono polemico). Vivevo negli interstizi del castello e negli intervalli della sua giovane vita. Gli facevo il letto, gli preparavo e gli servivo il pranzo di nascosto, mentre lui era di là a frugare tra i libri della mia biblioteca: L’Iliade, l’Odissea… A casa mia, al cuore del più familiare, un giorno, mentre si radeva, il giovanotto si tagliò: depose il rasoio, volgendosi alla ricerca di un cerotto, e il mio sguardo cadde sul suo volto dove brillava una goccia di sangue.
(Esitante) Era sangue, era. Mi gettava l’immagine di Nostro Signore negli occhi, con tutti i suoi arcobaleni. Riluceva. Giù per il mento… Ah!… Che vita. Eravamo vicini. La mia mano lo sfiorò e lui si ritrasse, spaventato. (come facendo il gesto di sfiorare Jonathan) ” Attento” dissi ” attento a non tagliarvi! E’ più pericoloso di quanto non crediate, in questo paese.”
(Pausa). Quindi, con braccio indurito, dato di piglio allo specchio, non ricordo cosa soggiunsi. Forse parole dettate dalla solitudine, dal vuoto, dalla disperazione. Ricordo solo che, aprendo la finestra con uno strattone, lanciai fuori lo specchio che andò a frantumarsi in mille pezzi laggiù, sul selciato del cortile.
“Via! – ecco cosa dissi, ora ricordo – E’ questo dannato oggetto che ha combinato il misfatto. E’ un lurido strumento che ci obbliga a trascinare care immagini. Via!”.
(Pausa, poi, riflessivamente). Lo specchio era un vero e proprio carcere, trappola per topi erano l’ammirazione e il desiderio per la bellezza di quel ragazzo goffo e roseo, e io non volevo essere prigioniero! Prigioniero di chi si ritrae, verde di orrore. Là, nello specchio dove scorreva nero sangue fumante e noi, anime dei travolti da morte, tutti freddi intorno alla fossa… Di qua, di là, a pigiarsi verso lo specchio tiepido con grida raccapriccianti, nel desiderio… Sì!… La sete d’altra vita…
(Pausa). Tutti bianchi eravamo – giovani donne e ragazzi e vecchi che molto soffrirono, fanciulle morte prima che il loro cuore conoscesse il dolore e molti guerrieri col petto squarciato, uccisi in battaglia, con l’arme sporche di sangue – tutti a sghimbescio intorno alla fossa… A chinarci verso conca e cratere.
All’abbeveratoio andavamo, di qua, di là, ovunque lui ci gettasse l’immagine viva negli occhi. A bere… era sangue, vero sangue, ciò che riluceva sul collo… il sangue e l’immagine che nel sangue era…
(Pausa, poi, concitatamente). E noi già afferrati a quel rosa di bambola, l’uno nell’altro le grinfie, come fosse il corpo d’ognuno di noi il suo giovane corpo. E lui, di riflesso, la spada affilata dalla coscia sguainando, si ritraeva e non lasciava le teste esangui dei morti avvicinarsi al sangue…
(Pausa) Giù per il collo, brillava quel sangue… Cristo… Che vita! (Pausa, poi, annusando) Da lontano sentiva di biancospino, era come l’odore della carogna del cane morto da tempo, come il letame che giù in cortile spandeva odori muschiati… Quei riccioli poi, erano uncini di tortura; e le cosce…una carne stillante miele dorato, profumatissimi aromi… Dalla ferita era uscita qualche goccia di sangue, e questo gli colava sul mento. Feci un gesto, come per afferrarlo alla gola. Lui si ritrasse, e la mia mano sfiorò … l’ossario, il rosario cui era appeso il crocifisso.
Un subitaneo mutamento si verifò in me: l’acquolina che avevo in bocca si seccò, cessò il ronzio alle orecchie e il furore scomparve con tanta rapidità, da far dubitare che ci fosse stato.
“Impiegato! (ironico, in falsetto) Laissez moi partir, mi lasci stare! Sono un onesto e rispettabile impiegato” – blaterava, rosso in viso. – “Impiegato di uno studio legale! A Mina la definizione non piacerebbe. Procuratore legale, piuttosto, perché, proprio sul punto di lasciare Londra, m’è giunta comunicazione che avevo superato l’esame; e ora sono un procuratore legale a pieno diritto!” E ricominciava a fregarsi gli occhi. Ma era proprio sveglio, e nei Carpazi, (con tono aspro) lontano da casa sua, (con tono di feroce e sinistro trionfo) tra le mie nere braccia…
(Pausa, poi, cambiando improvvisamente tono, quasi lezioso e sulla difensiva) Bevono sangue anche la zanzara, la sanguisuga, la cimice, la pulce, il ragno e il pidocchio. E noi? Meno di un pidocchio. La cesta di concime si ritraeva da noi: invecchiati di colpo, curvati dal tempo come un punto di domanda…
Così? Dando ali alla disperazione, vale a dire: (come mimando i gesti che descrive) le braccia sollevate all’altezza delle spalle, le mani contratte, le dita a simulare artigli, lampi.
(Dopo una breve pausa, abbassando la voce) Senza denti, risucchiati in bocca e fallendo qui come nessun altro osa fallire, i morti affacciati all’altezza della testa: una maschera vuota di dietro, uscita dal muro, andata a sghimbescio e agitando le mani di larva.
Per piacere! Jonathan! Per piacere! E lui, l’abbeveratoio, verde di orrore, gridare che il buco è così grande, così largo, che è come scopare il vento. (Pausa)
E io morto, senza colore; soffiato via, bianco per sempre… Occhi e bocca così aperti e vuoti.
Occorre aggiungere altro?
(Pausa. Torna a sedere alla macchina da scrivere) Sì… Io scrivevo nell’intervallo del tempo di Jonathan. E controllavo le parole, non solo le emozioni e i sentimenti. (Pausa) Da lassù, il mio tavolo di fakiro. E mi dissanguavo per colorare (dà una sbirciatina al foglio nel rullo) uno straccio di carta, senza valore.
(Pausa) Scrivere nel nero? Scrivere fino alla fine? E smetterla per non arrivare alla paura della morte?
(Si levano le note del coro “casta diva”; poi, come svegliandosi da una trance). Ho vegliato tutta la notte. (Con tono ironicamente amaro) Vampiro, dicono. (Rapido aumento del tono del coro a indicare il trascorrere della notte. Dracula, come guardando in alto). Dalla finestra elevata filtra un tenero sole e le grida di bambini che passano. (Pausa. Come annusando in giro). Dalla cella vicina, dove sezionano i cadaveri dei giustiziati, giunge la cordiale intellettuale risata del dottor Zeta. (Tende l’orecchio). Dice che sono troppo sensibile, e ieri mi parlava di quel particolare umore che si accompagna alla debolezza degli organi, alla delicatezza dei nervi, alla vivacità dell’immaginazione, che rende inclini a compatire, a rabbrividire, ad ammirare, a temere, a turbarsi, a piangere. ” Gardez la tete froide, monsieur Dracula, la testa fredda che v’impedirà tra l’altro l’identificazione morbosa con i topi e i pipistrelli della vostra cella…”. “Ma – ho balbettato – ma io non uscirò vivo di qui…”. “Uscirà… uscirà…”, ha blaterato misteriosamente. E ora, come ogni mattina, è al lavoro nel suo laboratorio, e cordialmente scherza coi guardiani. (Tende l’orecchio, come ripetendo il canto che crede di udire).
Preso un cadavere, dice
io lo seziono
con molto scrupolo, dice
stimando il costo.
L’ossa forniscono
tanta calcina
da far l’intonaco
d’una cucina.
E si recupera
tanta grafite
da fare al massimo
cento matite…
Cento matite! E ride, il dottor Zeta, lanciando verso di me la voce; poi continua, ridendo di ciò che non è buono, una specie di risata etica.
Ed è ridicolo, dice
in fondo in fondo,
che, mentre vivono
su questo mondo,
si dian cert’arie
tanti mortali,
se poi gli scheletri
son tutti uguali!…
Rida chi può, caro dottor Zeta. Mi sveglio a mezzanotte. Vampiro? Quel che mi dissangua è l’attesa. (Pausa). Questo bosco stregato. (Pausa, poi, rivolgendosi minacciosamente al pubblico). Ancora un po’ di tempo e nell’ipnosi della lettura il morso di questa voce sarà indolore, quasi invisibile.
(Pausa, poi, come volgendosi alla macchina da scrivere) Non è questo il mondo che mi amerà. Va’, lettera che succhia… Ah!… questo abietto desiderio d’essere amato! Così!…Caro gobbetto… Abbarbicato a te… Con la tenacia delle erbacce del cimitero.
(Pausa, poi, gridando) Rendetemi, se non l’amore, giustizia; (Abbassando la voce) conto su tutta quella di cui sono capaci gli orribili lettori della notte. (Si ode un ululato prolungato, lupi all’esterno della prigione della Torre. Pausa; poi ironico, come citando a memoria) Ascoltateli i figli della notte. Che musica fanno, eh? (Battendo alla macchina da scrivere) Tu dai una ricompensa a chi ti porterà questa lettera. (Pausa; poi ironico e sinistro) Ha bisogno di te per rinsanguarsi.
(Pausa, poi alludendo al pubblico, ironicamente) Morsi invisibili vi fanno illanguidire, deperire, morire forse.(Pausa, poi riflessivamente). Chissà se anche loro potranno trasformarsi in altra vita, altro corpo, altra lingua – un mondo che abbia più forza, durata e splendore di ciò che banalmente accade e presto si consuma. (Pausa). Teatro, dicono. Dicono letteratura… Questa cosa è sempre stata
nera, fin dall’antichità. (Pausa, poi, riflessivamente) Sono così antico… Ah… un falso adulto, un adolescente spezzato che, per non piegarsi, ha rischiato d’inchinarsi fino a regredire a clown… Ah… vampiro! (Pausa). Tacere. Debbo tacere. M’impiccheranno… non so… mi faranno qualcosa… all’alba.
(Pausa. Si ode uno scalpiccìo. Allarmato, Dracula tende l’orecchio; poi, torna alla macchina da scrivere) Mentre scrivo… (Si odono passi tumultuosi che si avvicinano e gli acuti di Norma che canta “Casta diva. La luna ha intanto quasi terminato il suo periplo semicircolare alle spalle di Dracula). Mentre scrivo mi giunge dal corridoio sottostante il trepestio di molti piedi. (Continuando il rumore concitato dei passi dei carnefici che s’avvicinano) Cosa vogliono ancora farmi? (Gridando) Cosa vogliono ancora farci? (Pausa). S’avvicinano, sento passi tumultuosi. E un panico m’invade… (Si tasta il corpo). Cascata di sangue a corrente alternata, simultaneamente calda e fredda. (Balbettando) Addento la mia angoscia… Addento… la mia …
(Cala il buio completo in scena. Si ode solo la voce di Dracula che dice) I veri vampiri marciano nella luce. (Pausa). Nessuna lettera riuscirà mai a fermare il cammino dell’immensa e sfolgorante incoscienza del mondo. (Breve pausa) Al buio il mio cuore soffoca. (Pausa). E’ la luce di un’aurora troppo limpida da potersi sopportare più a lungo. (Pausa). il mio alito puzza. E’ già l’alba?… Vomito bianco…
(Allarmato, mentre continua il rumore di passi pesanti e iniziano gli acuti finali di Norma) Eccoli che arrivano, marciando nella luce del sole d’Europa. (Continuando il trepestìo e gli acuti di Norma). Entrano, sono entrati mormorando da tutte le parti.
(Uno, due tre flash sonori – come se sulla scena fosse entrato qualcuno con una macchina fotografica. Poi, dal buio). Sarà una morte veloce, che Dio ci aiuti tutti quanti… (Uno, due, tre flash) Non lo è. (Pausa). Già detto. Non sono io… Non sono io… Signori… No… Vi assicuro… non sono io (Pausa). Ho male ai denti. Fonemi… Siete venuti per portarmi via? Addio, sì, add… (Ultimi acuti di Norma e note finali di “casta diva”).
sipario
Gianni De Martino
Milano, 16 aprile 1993
Adattamento per il teatro del testo di Gianni De Martino “L’ultima lettera di Vlad il vampiro” pubblicato da Edizioni di Barbablu.
Il monologo del vampiro è stato rappresentato come atto unico al Teatro “ì” di Milano il 28 e 29 marzo 1994, con Jacqueline Ceresoli, regia di Mario Montagna.
Lo stesso monologo, interpretato da Jacqueline Ceresoli, è stato rappresentato a Milano dal 16 maggio al 30 giugno 1994, alle gallerie Arte-studio, Milenium, Vinciana, nell’ambito della manifestazione patafisica “Chandelle verte”, con opere di Accame, Baj, Crippa, Tadini, Duchamp, Man Ray, e di tantissimi altri che hanno incrociato il fluttuante – e spiralare – movimento patafisico rivelato e codificato da Jarry nell’opera postuma ” Gesta e opinioni del dottor Faustroll, patafisico”.
Gianni De Martino con i figli Karim e Gianluca nei camerini del Teatro ì
Milano,TEATRO ì, 28-29 marzo 1994PALCOSCENICO DI ATTRICE
con JACQUELINE CERESOLI
nell’atto unico
L’ULTIMA LETTERA DI VLAD
di Gianni De Martino
regia di Mario Montagna