IL LAVORO DEL FANTASMA
Note sulla scrittura e la trance
di Gianni De Martino
A questo punto il testo è finito. I carnefici sono entrati nella prigione e hanno giustiziato il vampiro (forse hanno davvero aperto i grandi finestroni in alto, in modo che la luce lo dissolvesse come ombra che dilegua; forse lo hanno impalato, decapitato; o semplicemente fotografato – chissà – un flash, lo scoppio al magnesio che fissa un’immagine sulla pellicola).
Sconto la sensazione che qualcosa sia entrato dentro di me che scrivo. Strano contagio, strana malattia… virale, forse. Come ogni buon persecutore, il testo è riuscito a diventare una parte di me, che mi tormenta.
Naturalmente non si tratta affatto di un’entità o, peggio, di un virus che racconta i suoi ultimi istanti di vita. Ma il silenzio delle creature dell’altro lato era realmente così assordante che, nel tentativo di colmare l’impossibilità a esprimersi, ho assunto – il tempo della scrittura – il punto di vista del fantasma.
Sono la voce narrante, sto chissà quanto impunemente cercando di focalizzare qualcosa…dall’altra parte del muro. All’inizio, prima di prendere forma in una specie di pulviscolo scintillante e poi di figura e di voce, Dracula è come una specie di suono, ancora informe e in tumulto… Un suono più intenso del silenzio…
Sogno un testo che si scriva da sé, sotto dettatura come fanno talvolta i medium.
Al ritorno da “laggiù”, sfilo il foglio dal rullo e accendo una sigaretta. Improvvisamente mi accorgo di sentirmi incomprensibilmente stanco, di una stanchezza soprannaturale, come dopo una lunga passeggiata o una battaglia nella quale il sangue sia scorso abbondantemente.
Una volta arrivato, sfinito e quasi esangue, all’ultimo dei fogli di questa cosa che per tranquillità chiamerò testo o scritto, continuo a sentirmi proporre domande e ad esserne imbarazzato (strano imbarazzo, somiglia a una specie di rimorso… ri-morso, mio dio!).
Incomincio ad avvertire l’attrazione torbida dell’insufficienza…
La prima domanda, la più ovvia e insieme la più difficile è che cosa ESso – il testo – intende essere e fare. Mordere? Ri-mordere? Come! Il racconto è terminato. Perché dovrei riscrivere? Per piacere! Per piacere! (agitando le mani davanti agli occhi, come per scacciare un pipistrello fastidioso).
Sto vivendo l’impulso a smettere di scrivere come una viltà e insieme una “tentazione” da vincere e un ostacolo da superare, o da aggirare. E così, quando la figura di Dracula sembra voler uscire dalla pagina, affacciandosi tra le righe nere di scrittura, sono tentato di ritornare con un attrezzo appuntito e ficcarglielo nel cuore.
D’altra parte, temo che il risultato potrebbe essere la mia propria morte, con una matita ficcata nel petto.
(Forse fu in un momento simile che Van Gogh si tagliò un orecchio… Lo stesso accadde al gallo Cantachiaro – anche lui ossessionato dalla perfezione: per cantar chiaro, si tagliò non so che cosa, con mossa accorta…).
Il testo socializzato – a differenza degli scarti e delle versioni e riscritture non pubblicate – nascerebbe da una sana decisione di autocastrazione. Per non parlare di tutte le altre disgrazie che mi son capitate nelle ultime due settimane, il tempo di scrivere e riscrivere L’ultima lettera di Vlad il vampiro.
Anzitutto ho ricevuto, per recensione, ben tre libri, freschi di stampa, sui vampiri: Il diario di Dracula di Marin Mincu da Bompiani; Bela Lugosi. Biografia di una metamorfosi di Edgar Lander da Tranchida Editori Inchiostro; e Vampiro di Fred Saberhagen da Fanucci editore. E, guarda caso, anche l’ultimo numero della Rivista “Millelibri”, con un dossier vampiri. Poi, come se non bastasse (tutti i buoni persecutori rincarano la dose) ogni volta che al mattino sfoglio i giornali trovo articoli sull’ultimo film di Scorsese “Bram Stoker Dracula” uscito in questi giorni in America.
Un’altra disgrazia: ho fatto un sogno. Sono a letto, in una camerata che pare di prigione o d’ospedale. Nel campo visivo, rischiarato dalla luce fioca di una lampadina blu, non vedo che i piedi di alcuni visitatori notturni. Portano delle babbucce. Sento la sirena di un’autoambulanza, o forse della polizia. Guardo verso la finestra. E’ notte fonda. Poi oso guardare di nuovo verso i visitatori: ” Cosa ci fate qua?”. “Inutile chiamare. Ed anche protestare. Il tuo caso rientra nel dispositivo numero 752 della sharia…”. La voce è rauca, giovane, dominatrice e quasi eccitante. Il visitatore ha un accento arabo. Finalmente lo vedo: un tipo barbuto, come un mollah. Poi ne spunta un altro, con una gellaba bianca, immacolata, ma con una piccola macchia bruna su una manica. ” E’solo un po’ di merda”, penso. Intanto quello estrae una carta da sotto la gellaba e, all’unisono con l’altro giovane barbuto, incomincia recitare, con voce monocorde: ” Allah ou akbar, Allah è il più grande!”. Spunta un terzo personaggio, più vecchio, con i baffi bianchi e con una mitragliatrice brandita a due mani. “Dov’è… Dov’è il Grande Satana?”. “E’ uno scherzo”, dico. ” Anche Montezuma non sapeva cosa pensare dell’arrivo degli Spagnoli”, risponde misteriosamente il vecchio. E improvvisamente vedo avvicinarsi la lama di un coltello brandito da una mano enorme, nera, serena, che mi taglia la gola e tutti i miei sensi sospende. L’assassino indietreggia, mormorando di aver compiuto un’opera pia, ma io sono ancora presente e vigile, con la testa rotolata sotto il letto. Come dibattendomi in un universo simile a una grande moschea polverosa, dico a me stesso: ” Sono ancora vivo. Che incubo interessante …”. E al momento in cui formulo il pensiero, la “r” di “interessante” si fonte con il trillo del telefono.
Al risveglio, cambio la versione del testo de “L’ultima lettera di Vlad il Vampiro”. I carnefici che marciano nella luce del “grande sole mentitore dell’Europa” irrompono all’alba nella sua cella per sgozzarlo al grido di ” Allah ou Akbar”.
Quanto a Montezuma, il riferimento mi sembra chiaro. Anche noi Europei, aperti come siamo ineluttabilmente all’irruzione islamica, esitiamo e non sappiamo cosa pensare, proprio come gli aztechi sorpresi dall’irruzione dell’altrove Europeo.
Il risveglio e l’ascesa dell’altrove islamico è “sfolgorante”, come lo fu, del resto, quella grande e nefasta rivoluzione giovanile che fu il nazismo.
E’ la peste, ieri bruna e oggi verde, che periodicamente ritorna, e contro cui la letteratura è impotente, come lo è “L’ultima lettera di Vlad”.
Ma forse la cosa più grave non è il tramonto dell’Europa e dei suoi antichi balconi – diventata, per improvvisa amnesia – una terra di halal e di haram – ma è il litigio avuto con G. l’altro giorno: era il mio turno di fare la spesa al Supermercato PAM, ma assorbito dalla scrittura dell’ Ultima lettera me ne sono dimenticato e quando è tornato non c’era quasi niente da mangiare in casa e se l’è presa con me che – dice – ho “sempre la testa altrove” . Naturalmente ho ribattuto che non mi piace sentirmi dettar legge dagli altri, che stava esagerando, che non ho “sempre” la testa eccetera, e abbiamo litigato.
Lui diceva “sempre” e io ribattevo “qualche volta”. Fino a quando mi sono scocciato e l’ho mandato al diavolo perché avevo da lavorare. “Vaffanculo!”, ruggivo. “Vaffanculo tu”, scimmiottava lui. ” No, vacci te a fare in culo!”, ribattevo. E poi sono uscito fuori della cucina, cercando di orizzontarmi in casa mia, una casa diventata improvvisamente estranea, come rischiarata d’irrealtà. Mi sono seduto dietro la scrivania come dietro una trincea. (Poi G. mi ha detto che ero spaventoso, perché prima di cominciare a battere sono rimasto qualche minuto così,immobile dietro la scrivania, con l’aria di uno che stesse premeditando un crimine).
Per scrivere dovrò rinunciare alla convivenza con G.? E’ una prospettiva dolorosa, perché vivere con G. è meraviglioso, sono innamorato… Insomma, sto scrivendo e con questo strano lavoro sto mettendo in imbarazzo parenti e amici.
Come quando R. mi ha chiesto cosa stavo scrivendo e io risposto balbettando. Allora G. è intervenuto, ironico: ” Sta scrivendo un racconto sui… vampiri! Invece di darsi da fare per guadagnare soldi con il giornalismo, lui scrive un racconto non si sa per chi, per cosa…”.
Sono un perditempo, per lui? Un maniaco? E’ così che mi vede mentre mi dissanguo a scrivere d’amore? E’ sempre la solita storia. Fin dai tempi degli Assiro-san-babilonesi. Ma forse è il modo di raccontarlo che è diverso…
Ancora un passo ed esclamerò, come la povera Mina quando scopre di essere stata morsa dal vampiro: ” Contaminata, contaminata! Non potrò più né toccarlo né baciarlo. Oh, perché proprio io dovevo divenire la sua peggior nemica, colei che più ha motivo di temere?”.
Poi c’è stato l’episodio di quando sono andato alla Biblioteca Sormani per una ricerca di testi sui vampiri. Ho fatto la fila per fotocopiare alcune pagine del libro di Fabio Giovannini, Il libro dei vampiri, e precisamente il capitolo intitolato “Il morso dell’artista”.
Domande, domandine, tutta una burocrazia piuttosto ottusa e regole che non sembrano avere altro scopo che quello di complicare le cose semplici con procedure assurde.
Avrei voluto che tutto procedesse più speditamente. Invece, brancolavano e perdevano tempo. Io sbuffavo, e l’impiegata delle fotocopie se n’è accorta e ha incominciato a guardarmi storto. “Stia in fila, lei!”, ha gridato a un certo punto. “Io la conosco, sa?”. Ha aggiunto.
Quando mai io ho conosciuto una così? L’ho guardata più attentamente. Era rossa in viso e scuoteva la testa, facendo tintinnare orecchini berberi. “Ah, sì?”, ho chiesto. “Mi conosce?” E lei, cafona e scorbutica, tentennando il capo per la bizza misteriosamente ha ancora gridato: ” Non mi costringa a dire cosa penso di lei…”
Una minaccia? Mi sono guardato intorno, c’erano gli studenti della Statale, a capo chino, come tante pecore, a riempire moduli e modulini per le fotocopie. ” Che gente strana si vede in giro”, ho detto a me stesso.
Il giorno dopo ho raccontato l’episodio a un amico dirigente dei servizi della Biblioteca, che mi ha detto trattarsi di un caso di esaurimento nervoso, dovuto a una Biblioteca che non funziona, assediata da un bacino d’utenza, così ha detto, esorbitante, per cui gli impiegati diventano sempre più demotivati, apatici, scorbutici, e talvolta vanno in tilt come quella signora delle fotocopie.”Esaurimento nervoso, credimi”.
Chissà se le parole dell’amico funzionario possono spiegare quelle frasi misteriose, quasi deliranti: “Io la conosco… Non mi costringa a dire quello che penso di lei…”.
C’è stato questo piccolo mistero in biblioteca, l’incontro con quel mostro delle fotocopie, e poi l’episodio di quando ho letto un passo di L’ultima lettera di Vlad a E., e lui mi ha guardato con sgomento, mi è parso, e ha detto che dovrei coltivare “pensieri più gioiosi”, e mi ha invitato a cena, dove mi sono annoiato mortalmente al racconto del suo nuovo bagno che si sta facendo, una storia di casa nuova, di condominio a Milano e di pochi metri di autonomia individuale rigorosamente sorvegliati dai vicini.
Quando gli ho detto che stavo continuando a occuparmi di Dracula, come temendo una specie di contagio, di contagio semi-magico, il volto gli si è andato offuscando, assumendo un colore sempre più cupo.
“Non agitarti, caro – gli ho detto. – Devi essere forte e coraggioso per aiutarmi in questa terribile ora… l’ora della scrittura”.
La luce della luna piena era tanto chiara da penetrare attraverso la spessa cortina gialla della Trattoria Toscana. E quando ci siamo salutati sono corso via, non dico come un pipistrello ma a scrivere tutta la notte.
Ancora le menzogne imbarazzanti, le menzogne della notte. Per esempio, so bene che la prigionia di Vlad Tepès detto “Dracula” nella Torre di Visegrad è attestata dal 1463 al 1476, e che morì due anni dopo la sua liberazione, cioè nel 1478. Perlomeno così risulta dai documenti raccolti dagli storici. Chissà perché lo faccio morire in carcere e ho datato la sua lettera 1492.
Forse perché è la data della scoperta dell’America, l’inizio dello sterminio degli altri popoli da parte delle armate di un’Europa solare, attraversata dai primi barlumi dello spirito scientifico e dell’individualismo che si dispiegherà con il Rinascimento, senza tuttavia far cessare i modi arcaici e sanguinari di trattare la minaccia, supposta o suggerita, proveniente da altri mondi. 1492 è una data simbolica e il fatto che non sia in accordo con la verità della vicenda storica di Vlad Tepes detto “Dracula” non mi farà perdere il sonno…
Continuo tuttavia a pensare che quella letteratura che imbarca menzogne e lapsus, cancellature e riscritture, macchie d’inchiostro, pipistrelli e demoni (che per tranquillità chiamiamo fantasmi) sia la scrittura meno gratuita che esista, la più pericolosa.
La letteratura è però anche farmaco. A piccole dosi può sembrare miele… (In tal caso, occorre leccare la pagina?).
A cosa “serve” la letteratura? A dare la parola ai vampiri. Risanare i malati.
Risanare i malati? Quella di guarire è, spesso, solo una speranza, una pietosa bugia. La speranza, l’ultima a morire, è tenace tuttavia, com’è tenace l’erba dei cimiteri.
Insomma, il corpo è un orologio che, prima o poi, non si potrà aggiustare. Ma la letteratura – simile alla speranza, simile alle erbacce del cimitero – pietosamente trasfigura ogni cosa, anche se guasta, vecchia e brutta. O perlomeno così fa apparire il mondo: in una figura che ha più forza, durata e splendore, di ciò che banalmente accade e presto si consuma.
La letteratura serve a ritagliare una via nello scorrere del caos del mondo. L’alternativa a una via possibile, o anche impossibile, è quella di finire nel solito mare di pus.
Scrivendo non si sa. Si va. Si scrive e si va oltre, sempre oltre.
Sull’ultima soglia esitiamo. Un brontolio ci indica la strada: ” Avanti, avanti! Niente paura ! Tutto in ordine quaggiù. Il vostro caro è nella camera da letto, nella sua bara, come si addice”.
Ancora un passo e – oltre la vista spaventosa di un fantoccio cereo, accartocciato, prosciugato e già diventato mummia, oltre la croce di una natura problematica, simile a un mucchietto di spazzatura piagnucolante – mi sorprenderò a pensare e a scrivere: nostante tutto, non è mai troppo tardi per una buona Resurrezione!
Milano 26 novembre 1992.