Radici
PASSAGGIO AD ANGRI
Al via la terza edizione del “Premio Città Di Angri”, da quest’anno denominato “Premio Città Di Angri…nell’Agro” con l’ intento di “aprire” dalla prossima edizione a tutti i paesi dell’Agro Nocerino Sarnese e diffondere così il nome e l’immagine di un “comprensorio” ricco di storia, di monumenti, di splendidi paesaggi naturali che potrebbe diventare una nuova provincia autonoma della regione Campania. L’Associazione Nazionale Giovani Rappresentazioni Innovative e il Comune di Angri hanno conferito a Gianni De Martino il premio per la categoria "arte, cultura & letteratura".
3° edizione “Premio Città Di Angri…nell’Agro” Palazzetto “Olimpia Sport”, Via Dei Goti – Angri ( Salerno) |
Ringrazio l’Associazione Nazionale Giovani Rappresentazioni Innovative e il Comune di Angri che hanno voluto conferirmi tale riconoscimento. A un tempo grato e inaspettato, questo premio “riservato a tutti i cittadini angresi, o di origine angrese o in qualche modo legati alla città di Angri ”mi riporta nel paese in cui sono nato nel 1947. Fa quasi impressione dire "più di mezzo secolo fa". Eppure è così. Questo paese, così banale, così insignificante per chi vi passa distrattamente, sulla via per Salerno o per Napoli, mi è rimasto – insieme al nome proprio – come uno spillo all’angolo degli occhi e nel cuore .
Mi chiamo Giovanni, Gianni – dal nome di uno zio marinaio disperso in un sottomarino nel Mediterraneo durante la seconda Guerra mondiale – e ricordo la gente, le case, i luoghi circostanti, la vita che pulsava tra quelle mura domestiche talvolta umide di pioggia, i giorni solari, la Torre di Palazzo Doria, le campagne, l’azzurro profilo dei monti Lattari, oltre i quali sapevamo che c’era il mare.
E qui mi tocca sventolare un lenzuolone, se non il fazzoletto; e muovermi, ancora una volta, tra il cuore e la valigia…
Nascere ad Angri , crescere a Castellammare, scappare per noia o per insoddisfazione a studiare filosofia a Parigi e poi a fare pesca subacquea a Tangeri e il surf sui cavalloni dell’oceano alto, grigio, già africano di Essaouira negli psichedelici anni sessanta durante l’esodo di giovani di tutte le nazioni, o forse di nessuna, che fra molta arroganza e sacchi a pelo, fiori nei capelli e le chitarre che suonavano Dio è morto credevano d’essere la prima generazione civilizzata del pianeta; apprendere il buddhismo e lo yoga in India; passare dall’underground al Dalai Lama restando però fedelmente cattolico, apostolico e romantico; sposarsi a Venezia, divorziare con due figli a carico, risposarsi, restare di nuovo solo con il ricordo di lei che si porta via la mia macchina dopo aver litigato per dividerci uno stereo o un frullaculo; ritirarsi in una specie di convento come Amleto suggeriva ad Ofelia, ma farlo insieme a un altro monaco, un amico allegro e consapevole di molto preferibile a un’amante isterica o a un compagno lampadato che vuole il Pacs; vivere e lavorare come giornalista e scrittore a Milano: tutto questo non sembra molto serio. E’ il mio destino. Il destino di un Europeo sempre in partenza, ma non direi di un errante disponibile.
E di volta in volta ho una vaga vergogna di questo cosmopolitismo oggi non inconsueto, e mi dico che tutto ciò può avere altrettanta importanza della virgola in un testo; non di più, e questo forse perché per uno che fa il mio mestiere il viaggio della vita è anche e soprattutto un evento linguistico – un muoversi tra le parole e le menzogne necessarie, non solo tra le cose, le emozioni e i sentimenti.
Credo che l’essermi allontanato da Angri spesso abbia creato in me la sensazione di avere un cuore di traditore, perché non ho quel complesso dell’emigrante per cui – specialmente con l’avanzare dell’età, l’accumulo dei ricordi e il desiderio di reintegrare la terra, il luogo o pleroma degli antenati, ovvero di morire in pace – il bisogno del ritorno è crescente. Mi basta abitare e muovermi nella mia lingua, la lingua-madre, e considerare come mio paese qualsiasi luogo in cui ci sia un affetto: una donna, un amico, un fratello , un figlio o un amore .
Radici ? Qualcun altro parlerebbe di “eros della lontananza” o di "radici"… Quante volte si è detto: non possiamo recidere le radici!… Non fa parte del mio vocabolario. La parola "radici" suggerisce un affondamento nel suolo, un imprigionamento nel fango e uno sviluppo nell’oscurità. Alberi e piante si devono rassegnare umilmente al suolo natale, hanno un bisogno vitale delle radici: le creature umane, no, sono in movimento… Più che del bisogno, si credono esseri del desiderio, ovvero di una forza che sembra provenire dal di fuori, letteralmente dalle stelle.
La gente direbbe subito: “Beh, noi camminiamo, siamo animali”, usando quindi metafore animali, ma penso che la nozione animale non sia un buon simbolo per l’esilio direi categorico che connota l’umana condizione e per la libertà d’azione a cui aspiriamo. Noi nel movimento respiriamo la luce, aspiriamo al cielo e alla libertà spirituale. E quando veniamo ficcati sotto terra con una croce sulla gobba, non crediamo che sia per marcire, ma per risorgere a vera vita. Una vita che abbia più forza, durata e splendore di ciò che banalmente accade e presto si consuma…
“Vera vita” – ecco che un po’ di memoria mi sale alle labbra – era il titolo di un giornalino letto alle scuole elementari di Angri, lo portava in classe suor Gemma, delle suore Battistine di via Ardinghi, un ordine fondato dal beato don Alfonso Maria Fusco (1839-1910).
Nel giornalino “Vera vita” c’era anche una sezione dedicata alle avventure di Tommasino, un ragazzino sempre al bivio della sua coscienza, fra un angelo custode e un diavoletto che si chiamava Bick Bick…
Affiorano altri ricordi frammentari, dissociati, insieme a immagini di un fiume, di zuppiere fumanti e all’odore del “ragu”… immagini senza alcun legame apparente, galleggiando su un oceano d’incertezze…
A noi smemorati in vertigini di stelle ed esiliati dalla vera vita, vale a dire da niente di meno che dal Paradiso ( un Paradiso che somiglia stranamente all’infazia ed evoca chissà quale innocenza perduta in qualche giardino piantato in noi da prima che cominciasse la storia) non importa solamente delle strade che ci guidano – dalla povertà alla ricchezza, oppure a un’altra povertà; dalla schiavitù alla libertà, e alla morte inevitabile. Vorremmo anche sapere perché le strade promettono, e dove ci portano, dove ci spingono, e come mai poi ci abbandonano. Non ci basta stramazzare morti come siamo nati, sul ciglio di una strada o di un fiume che non abbiamo scelto. Insomma, credo che a nessuno basti nascere e morire da lontano – dall’immensa distanza dalla quale si scrive e ci si fa segno…finendo, nella maggior parte dei casi, con il morire davanti a una porta chiusa, oppure aperta sul buio…
Lontano da dove ? Certo, come noi, le strade non sorgono a caso, hanno un’origine. Un’origine illusoria, perché le strade non hanno mai un punto di partenza reale. Questo è l’oceano della vita e della morte. E prima di quella curva, di quell’onda o di quella storia ce n’era un’altra; e prima di questa un’altra ancora. L’origine diventa irreperibile, giacché a ogni incrocio si incontrano altre strade e onde che hanno altre origini. Se si dovesse tener conto di tutte le confluenze, si farebbe cento volte il giro della Terra. E l’idea del vuoto si affaccia ad ogni soglia che bisogna attraversare, da soli o in compagnia dei propri affetti. E comunque sempre con questa strana sensazione di “ un mal di mare in terra ferma” ( Kafka).
Per uno che fa il mio mestiere – il mestiere più solitario che esista – è meglio stare fermi. Sembrerà fuori-luogo, eppure per scrivere non bisogna viaggiare, ma scagliarsi, o ritirarsi e restare dentro la madrelingua. La vera patria di chi scrive è anzitutto una lingua che – prima ancora di diventare un’ossessione, un giro senza fine di travestimenti multipli e di falsi ricordi, una macerazione, una capsula o uno strano mestiere e un dovere – è una lingua viva. Una lingua viva ha, per definizione, una propensione all’abbraccio; cerca di abbracciare quanto più terreno è possibile – e quanto più vuoto, “mal di mare in terra ferma” o paradiso è possibile. Senza essere – per così dire – spugna delle influenze sociali, storiche , culturaliste o altro.
Credo che sia utile partire da un punto estraneo alla memoria delle tracce, utilizzandolo come una leva per impegnare il proprio avvenire. Si tratta di non restare soltanto prigioniero di un debito verso il passato, che si finirebbe con il pagare con il rimorso , con il lutto interminabile o con la nostalgia per ciò che è scomparso, ma di aprire un credito al futuro. Partire da un punto di estraneità, d’inquietudine e di meraviglia vale soprattutto in quest’epoca di fanatismi e di fascismi identitari, in cui ognuno, ognuna – aggrappandosi anche in sogno all’indigenza fondamentale di una maschera e di un’identità fissa e contratta – cerca di rivendicare il “proprio” pezzo di verità, il “proprio” pezzo di storia, il “proprio” pezzo di libertà, di fragile felicità o di diritto a un’uguaglianza fittizia, con il rischio di passare accanto alle differenze, cioè alla vividezza della vivente vita, e trasformare il mondo in una discarica di enormi frammenti e d’impedirsi di attraversare il futuro. Ebbene, l’introiezione di un punto di estraneità radicale al quale identificarsi come viandante mi sembra – sebbene possa sembrare il punto di vista tipico di un extracomunitario, di un disoccupato, di un poeta o di un mostro – un buon punto di partenza per prendere coscienza del proprio passato come una memoria forse densa, agglutinante – come pare sia quella di tutti gli esseri incompiuti – ma tuttavia una memoria in divenire.
Dietro il foglio bianco o il magma dove si costruisce c’è ancora un mondo e molte altre storie possibili o anche impossibili. Occorre che qui i fili si riannodino, per non diventare un nichilista e dissiparsi nell’illimitato. E’ allora che la Memoria soccorre e ci suggerisce che non è per arbitrio, o per snobismo, che ci consideriamo viandanti , nell’attraversamento di un vuoto come fresca traccia di un passaggio. Perché il vuoto è semplicemente l’esperienza del non-luogo, che si presenta come esilio, come termine, simbolo e dramma cardinale dello spostamento umano.
Un tale spostamento sarebbe erranza vana, un mero spostamento del diavolo, senza Memoria. E non c’è Memoria senza luogo. Insomma, Angri resta, per me, un luogo della memoria. E’ così! non ho altra prima memoria che quella della luce che si vede venendo al mondo in un luogo dal quale sarà giocoforza allontanarsi, e quella delle prime parole cantate da mia madre, dettate da mio padre, riprese dai fratelli e dalle sorelle. Si scopre allora che – da quello che non conoscendo altra origine che la luce o l’abbaglio primordiale potremmo chiamare “la notte dei tempi” – la questione dell’esilio, vale a dire del luogo, è la ricerca incessante di fondare ciò che potrebbe offrire riparo contro l’erranza , la dissipazione e l’oblio.
Mentre scrivo contro la mia dissipazione, mi viene in mente che la parola chiave, di questi tempi, è Sicurezza. E che Angri non è tanto “il luogo sicuro”, quanto quello degli affetti familiari, del parentado, della prima educazione ai principi della vita cristiana e del battesimo nella chiesa di san Giovanni il Battista e del ricordo del giorno della prima comunione e della cresima. Ovvero della conferma dell’incontro, attraverso tante persone care e gli altri, con un Altro che ci rassicurava con il suo pensiero e ci diceva di non aver paura, perché ci saremmo salvati insieme, come fratelli e sorelle. Era il solo uomo con un futuro di cui io abbia udito mai parlare, e credo che sia stato anche il primo amore, un amore sicuro. Legato a un luogo, a una trasmissione di memorie e a una chiesa di campagna che potrebbe anche trasformarsi in un miraggio…L’idea del deserto, del buio o del vuoto si affaccerebbe ad ogni nuova soglia che ci tocca attraversare, se ci credessimo soli al mondo e non inseriti in una storia concreta, in compagnia dei propri affetti e del proprio mondo.
La memoria non è quindi solo una traccia del passato, un legato, un’eredità , una “beata nostalgia”, un condizionamento o l’angoscia di un’influenza, ma un divenire.
Non è a caso che a Milano conservo l’immagine del “nostro” san Giovanni “vecchio”, una statua nera con il volto da “cafone” ricavata rozzamente – come narra la leggenda – dalla polena di una nave che mille anni fa trasportava orciuoli di creta dalla costa tirrenica alle terre africane. E’ un pezzo di legno bruciato e miracolosamente salvato dalla distruzione, o dalla cancellazione, raccolto dai miei antenati, dagli angresi, che sul posto del ritrovamento costruirono una chiesa. E’ a furor di popolo che, specialmente in occasione di pubbliche calamità, la statua nera del buon santo protettore, un tempo sollecitato dagli urli delle “zitelle” scapigliate, viene tirato fuori dalla nicchia e portato sul luogo del disastro, affinché possa constatare da vicino i danni provocati ai campi dall’inondazione del fiume, dall’alluvione, dal terremoto, dal bombardamento, dal lapillo vulcanico eruttato dal sovrastante Vesuvio , o da una lunga siccità.
Conservo in biblioteca, a Milano, anche i libri su Angri e l’agro nocerino sarnese appartenuti a mio padre Vincenzo; fra questi anche il libro di Gaetano Marra dedicato alle tradizioni, leggende, folklore della Terra di Angri. “Sono cose passate che è bene ricordare – scrive il compianto professor Marra, che era un buon amico di mio padre. – Ricercando nel passato si può trovare l’avvenire, perché anche il presente acquisti significato.”
Senza memoria dei genitori, dei fratelli e sorelle e degli amici o delle care suore battistine e del grato odore dei tigli scomparsi di Angri con i suoi monti Lattari oltre i quali si sapeva che c’era il mare, non sarei qui a dire che sono angrese o angrivaro e di ceppo “cafone”, ma non di Angri. Lo dico allo stesso modo in cui il cristiano dice di essere nel mondo ma non del mondo, oppure Agostino – a proposito della verità – scriveva che questa era nella coscienza, non della coscienza…
Continuo a scavare e a pensare che occorra assumersi la responsabilità di errare e avere la pazienza di saper attendere il Paradiso senza nostalgia per il passato e senza aspettare, chinandosi un po’ alla terra dove riposano le ossa dei cari morti e un po’ sull’orlo della tomba vuota.
Insomma, credo che occorra restare fedeli al luogo, al corpo e al linguaggio in cui si è nati.
E assumere non tanto un’identità acritica, nostalgica e tribale quanto uno stile di vita e una trasmissione aperti alla libertà d’azione e al divenire in Cristo – vale a dire legato al pensiero dell’Uomo con un futuro in una Terra, compresa Angri, che se Dio vuole un giorno si sveglierà, risorgerà con tutte le sue storie scomparse e le sue radici in cielo.
Come i Sette Dormienti della Cappella Pisacane, la chiesella di via di Mezzo, posti con i loro corpi di terracotta , le loro tuniche rosse e le loro scintillanti armature di guerrieri romani in una bacheca di cristallo sotto l’altare sovrastato da un affresco raffigurante una Madonna, una “Mamma schiavona” dagli occhi dolcissimi. La leggenda – risalente a Gregorio, vescovo di Tours dall’anno 573 al 594, e poi ripresa anche nel Corano dei musulmani attribuendo però a quei giovani una fede islamizzata – racconta dei sette giovani cristiani, che si addormentarono in una grotta nei pressi della città di Efeso (l’odierna Ayasolük, in Turchia), nella quale si erano rifugiati per sfuggire alla persecuzione dell’imperatore romano Decio (249-251) e dove furono murati vivi per essersi rifiutati di sacrificare agli idoli. Si ridestarono dal sonno quasi due secoli dopo, quando regnava l’imperatore cristiano Teodosio II (408-450) e il mondo era cambiato, era diventato cristiano, vale a dire più accogliente. Forse anche noi un giorno ci sveglieremo in un altro mondo, in un reale più largo che – fra tante cose rinnovate – ci libererà dall’accumulo di tante erranze vane e ci accoglierà come vuole, secondo verità e giustizia, il cuore.
P.S. Scusate se talvolta scrivo cose che sembrano “impegnative, a volte molto impegnative” – come giustamente, a proposito dei lenzuoloni del presente blog, ha scritto Friedrich. Forse dipende dal fatto che nella vita, fin dall’infanzia ad Angri, mi sono incontrato e scontrato con la differenza tra ciò avrei voluto essere e ciò che gli altri volevano o dicevano che io fossi ed ero. Non è che un semplice caso di emergenza personale. Per cui è stato giocoforza impegnarsi – anche tramite le arti, la scrittura e la letteratura che non m’interessa che perché allena lo spirito a qualche trasformazione – nella questione cardinale del come essere.
Nella società in cui viviamo, la maggioranza delle persone, presa da problemi di sopravvivenza e di guadagno facile, non sembra più comprendere coloro che si pongono questi problemi. Anzi, non ci si bada più e si guarda con una punta di diffidenza e di disprezzo, tipico nella piccola borghesia di destra o di sinistra, agli intellettuali. Penso all’oblio in cui in Italia è tenuto il Petrarca, per esempio – nel degrado nostro, della natura, della cultura e della lingua – a chi volete che interessi ancora leggere o studiare Petrarca ? Ma i pensatori, i letterati, i poeti, i musicisti e i pittori non possono che porsi questi problemi petrarcheschi e impegnarsi nel grande dilemma, o altrimenti sarebbero persone comuni, e non susciterebbero scalpori né tra la gente, né tra i critici attenti e competenti, o tra quelli che ne resta. E ne resta, perché mi viene in mente l’amico Mariano Bargellini, che molto opportunamente e controcorrente, in un’intervista di Emanuele Pettener ha detto, evocando Heidegger e facendolo vibrare: “ abbiamo bisogno di una giusta lontananza dalla vita. Il compito della letteratura è ciò che vien definito dai formalisti russi “straniamento”: far sentire in tutta la loro forza la presenza e l’assenza delle cose, indipendentemente dal loro uso e dal loro reticolo d’interessi. È qualcosa di religioso: far sentire gli oggetti, le persone. La letteratura è lotta contro la corruzione delle parole, che è anche corruzione dell’immaginazione – a cui lavorano in tanti, la pubblicità in primis – immaginazione che diventa tautologica, piatta iperbole delle cose così come sono in superficie. Abbiamo bisogno di una lontananza dalle cose per vederle meglio nella loro singolarità creaturale”.
Quanto a me, consideratemi un figlio di Angri, un figlio difficile di questa convalle* della Campania. E scusate, anzi perdonate, se – mettendo in imbarazzo con i miei libri parenti e amici – talvolta dò l’impressione di non saper fare altro che scrivere e passare.
*il nome Angri deriva da termini del latino antico ancra, angra, ancrea, ancria, con il significato geomorfico di valle con valle, convalle. “ Ancrae: convalles, vel arborum intervallata”, si legge nell’epitome che nell’VIII sec. d.C. Paolo Diacono fece dell’opera molto più antica De verburum significatione ( II-III sec. d.C.). Dalla stessa radice deriva il termine alto tedesco o forse longabardo angar, continuato nel moderno tedesco anger , con il significato di prato, prateria. Sappiamo inoltre dell’esistenza ai tempi di Giulio Cesare del popolo germanico degli Angrivarii, abitanti delle convalli lungo il corso medio del fiume Weser, un territorio con caratteristiche simili a quello di Angri posta nella valle del fiume Sarno – oggi tristemente noto come il fiume più inquinato d’Europa.
In calabrese e in siciliano il termine angra indica un terreno coltivato lungo il fiume. E tale immagine ha dato luogo al toponimo Angra, contrada di Corridoni, in provincia di Reggio Calabria, posta in una valle vicino a un fiume. Angrogna si chiama invece una valle del Piemonte e Anghironi un paese della Sicilia. Nella lingua spagnola angra significa invece baia, un significato che risuona nella voce dialettale di Ancona, angara. L’idea di rada e di baia si trova anche in Angra dos Reis in Brasile, in Angra do Heroismo, capoluogo delle Azzorre, e in Angra Pequeña, cioè Baia Piccola, paese nell’Africa Sud-occidentale – così denominato dal navigatore portoghese Bartolomeo Diaz.