ISLAMICA
LA SCRITTURA E IL POTERE
… Non si tratta di parole scritte su tavolette né incise su rotoli di papiro: tu senti qui il chiaro linguaggio di una lingua libera. Su, presto, esci dalla mia vista! – Eschilo, Le supplici
Un tempo la scrittura era privilegio degli scribi al servizio di poteri dispotici senza lingua comune con la massa “volgare”, mantenuta in uno stato di ignoranza e di terrore diffusi. Benché siano passati cinquemila anni, proprio in Medioriente dove la parola scritta apparve per la prima volta, i moderni dittatori arabi governano sempre in nome di alcune verità scritte della cui superiorità si proclamano irresponsabilmente i rappresentanti e da cui traggono legittimità
Moustapha Safouan, psicoanalista franco-egiziano di statura internazionale, pubblica Perché il mondo arabo non è libero. Politica della scrittura e terrorismo religioso (Spirali edizioni). Questo libro, pubblicato in contemporanea con l’edizione francese (Denoël 2008) e inizialmente in Egitto, al Cairo ( dove non a caso ha avuto scarsa eco) , è l’analisi dei processi materiali e storici della servitù nella quale i poteri dispotici tengono attualmente i popoli arabi attraverso una certa politica della scrittura e della lingua.
Safouan riprende due proposizioni. La prima è quella di Levi Strauss sulla scrittura come funzione di sfruttamento e di prestigio. La seconda è la tesi che nel Corano non c’è alcuna indicazione che ci dica come organizzare un sistema politico di governo. Questa tesi fu sostenuta nel 1925 dall’alim o sceicco illuminato ‘Abd al- Räziq Ali Abderraziq, nella sua opera principale al-Islärn wa-usül al-hukm [L’Islam e i fondamenti del potere]. Il libro, che costò al giudice l’espulsione dall’università di al.Azhar, è diventato un punto di riferimento del pensiero arabo contemporaneo e di numerosi scrittori moderni. A queste due tesi Safouan aggiunge che lo Stato islamico ha continuato l’arcaico principio di sempre : quello di appoggiarsi sul Libro come luogo della verità. Se quindi esiste una differenza tra Oriente e Occidente, questa risale alla filosofia greca dell’Occidente che ha introdotto, specialmente attraverso la critica platonica della scrittura, il principio della responsabilità di chi scrive, parla o governa. La consapevolezza che la verità deve vivere nella coscienza presente di parlanti in dialogo tra loro non è passata nel mondo orientale, dove si è rimasti alla credenza nella verità così com’è; scritta nel Libro. Da qui la mummificazione di una lingua considerata la lingua Una, perfetta, superiore a tutte le altre, continuamente glorificata, ma incapace di rispondere.
Il punto centrale – dal quale s’irradiano una molteplicità di temi a « bassa » intensità psicoanalitica ( come per esempio quello della funzione del padre ideale) – è la divisione della lingua tra una lingua scritta ( “lingua grammaticale”, come diceva Dante) e la lingua parlata, vernacolare, “volgare” ( secondo l’espressione di Dante, al quale Safouan si riferisce). Questo bilinguismo, che è universale, diventa nel mondo arabo un muro tra una lingua scritta classica (ﺔﻴﺑﺮﻌﻟﺍ ﺔﻐﻠﻟﺃ al–luġatu l-‘arabiyya , la lugha al-fuçhâ) continuamente glorificata, sacralizzata perché fondamentalmente identica all’arabo della rivelazione coranica e la lingua parlata, gli idiomi, i dialetti (l’egiziano, il tunisino, il marocchino o lingua darija, il berbero, eccetera), che vengono svalutati, considerati inadatti a contenere e trasmettere il pensiero, i saperi, la cultura.
Di contro a questa barriera linguistica nel mondo arabo sottomesso a un ordine politico arcaico, Safouan mostra come l’evoluzione culturale e politica in Europa sia avvenuta abolendo la barriera tra lingua “grammaticale”; e “volgare”. Esemplare è il passaggio dal latino all’italiano, al francese, allo spagnolo, e la prima traduzione della Bibbia in tedesco. Nel corso di un lungo processo storico, il superamento del fossato linguistico ha permesso una trasmissione del pensiero, compreso il pensiero dei diritti. Con la diffusione dei saperi e di una cultura condivisa in Europa è emersa una società civile e si sono aperti maggiori spazi di libertà e di emancipazione politica. Niente di simile nei Paesi arabi, dove i moderni faraoni alimentano il narcisismo delle élites arabe che credono di scrivere in un linguaggio “elevato”, se non sacro, e producono terrore di Stato all’interno ed esportazione di terrorismo religioso all’esterno, in un mondo ormai globalizzato. Da qui l’appello che Safouan rivolge agli intellettuali del mondo arabo di procedere, senza per questo abbandonare la lingua scritta dell’alta letteratura e del testo coranico, a una creazione nelle lingue vernacolari, quella dei popoli. O perlomeno a ispirarsene per avere una comunicazione con il loro popolo.
Il punto decisivo è che la politica che mantiene la divisione della lingua è in correlazione con la struttura e l’esercizio del potere dispotico e di tutta una serie di imposture, come quella che nel mondo arabo permette al despota di essere il rappresentante di Dio, di parlare a suo nome e d’incarnare il padre ideale tra repressioni feroci e una censura terribile. Non appena nel mondo arabo si leva una parola libera, magari postando un testo in internet o aprendo un blog, si rischiano anni di prigione e talvolta la morte. Questi regimi producono un silenzio pesante, pudibondo, gravato da timori di ogni genere derivanti dalla sacralità della lingua araba, il poco spazio concesso alla formazione di una società civile e l’assenza di un dibattito critico.
E’ un sistema asfittico, in cui ogni critica viene percepita come una malevolenza o un insulto. L’utilizzo dello Stato moderno in maniera arcaica da parte di una piccola borghesia male installata nel potere e che ha paura di tutto finisce con il suscitare un terrorismo a corto circuito, con forti cariche simboliche, “nel nome di Allah”. Un altro punto introdotto da Safouan è un rovesciamento del rapporto tra religione e politica nel mondo arabo. Generalmente gli osservatori laici, se non laicisti, della crisi del mondo arabo tendono a incriminare la religione islamica, mettendo l’accento sulla sua arcaicità e ritenendola responsabile del ritardo di queste società. Così facendo, sostiene Safouan, s’introduce una semplicistica spiegazione metafisica, come se la religione non fosse legata alle forze politiche, storiche, materiali. Senza assolvere gli anacronismi della teologia e delle istituzioni islamiche, l’analisi di Safouan mostra che è l’uso politico dell’islàm e del suo linguaggio da parte di un potere arcaico a spiegare la tragica situazione in cui versa il mondo arabo. Anche se la religione potrebbe essere, freudianamente, un’illusione, nondimeno essa partecipa al processo di civilizzazione umana e sostiene la fede nella parola.
In un dibattito svoltosi nei giorni scorsi a Parigi nell’ambito dell’associazione psicoanalitica “ Diwan occidental oriental”, Safouan ha spiegato che la necessaria separazione tra lo stato e la religione non elimina la questione della fede nella parola implicata nella credenza. In altri termini, nessuna società può fare a meno di un rapporto con il “cielo”. Non perché religione e stato sono separati la questione della credenza è regolata. Esiste certamente nell’islàm una tendenza a identificare la verità con lo scritto. Ma Safouan osserva che un lavoro di disintificazione tra lo scritto e la verità esiste all’interno stesso del testo coranico, per esempio nel versetto che recita: “ Dio solo conosce la spiegazione della sua parola”. La verità di questa parola non è nella lettera manifesta ed è un invito all’interpretazione. E’ l’interpretazione e l’apertura della questione dell’interpretazione a costituire un atto di fede, di fiducia cioè nella parola. La mistificazione che i poteri statali condividono con i movimenti integralisti o islamisti è che la verità sarebbe data senza spiegazioni nel testo. Il Libro sarebbe l’incarnazione sacralizzata della verità. Terrore di stato e terrorismo “nel nome di Dio” condividono questa stessa credenza fanatica nella verità della lettera.
Si vede bene come vi sia una posta politica nella traduzione. Non solo nel mondo arabo i “responsabili” al potere non sono politicamente e moralmente responsabili ( perché tanto, “è scritto”, mektoub), ma si traduce anche poco, nella maggior parte dei casi in una lingua classica che priva i popoli all’accesso alle letterature di altre lingue. Le poche traduzioni eternizzano l’idealizzazione e la sacralizzazione della lettera araba. Pertanto le traduzioni nelle lingue vernacolori costituiscono un atto politico. Non della politica, ma del politico come fondamento della comunità umana e – oltre all’uso maligno che del politico può essere fatto – della regolazione delle strutture immaginarie della società. Così Safouan stesso, che tra l’altro ha tradotto in arabo classico Hegel e L’interpretazione dei sogni di Freud ( tafsir el ahlam, Dar el M’aref, Al Qahirah1958),ha ormai deciso di non scrivere più che in arabo parlato egiziano. La sua audace traduzione dell’Otello di Shakespeare ne è l’esempio più recente.
Link
Arabo classico o dialettale ? La questione non è solo di ordine linguistico o pedagogico. E’ una questione politica, spesso ignorata dai governi. Analisi di Ruth Grosrichard ( in francese)
Appuntamenti
Dibattito intorno al libro Perché il mondo arabo non è libero (MILANO SENAGO, Villa San Carlo Borromeo, sabato 6 dicembre 2008, in serata)
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Dibattito intorno al libro Perché il mondo arabo non è libero (ROMA, Ambasciatori Palace Hotel, via V. Veneto 62, giovedì 4 dicembre 2008, in serata)
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Ciao Gianni, rileggo l’articolo e scrivo un commento più tardi
Jean-Albert