Il volo della Fenice

IL VOLO DELLA FENICE

 

Gli altari in rovina sono abitati dai demoni
(E. Junger, Blatter una Steine).

Nel corso di un dibattito sulla letteratura vampirica ( nel blog letteratitudine di Massimo Maugeri) , è stata, tra l’altro, evocata la figura della fenice. Uccello mitico a metà tra un’aquila e un airone, di colore rosso sangue, capace di ricostruirsi ciclicamente dalle proprie ceneri, la fenice è cara al cuore di numerosi scrittori, pittori e musicisti.

Ovidio ne parla nelle Metamorfosi (XV 391- 408) e Dante Alighieri evoca proprio la fenice ovidiana  in relazione con la metamorfosi infernale del dannato Vanni Fucci,  che morso alla nuca da un serpente  in un istante si incenerisce e subito rinasce nelle sue fattezze precedenti.

L’incenerimento e la rinascita  sono illustrati da una similitudine che apparenta il dannato alla fenice:

«Così per li gran savi si confessa / che la fenice more e poi rinasce, / quando al cinquecentesimo anno appressa; // erba né biado in sua vita non pasce, / ma sol d’incenso lagrime e d’amomo, / e nardo e mirra son l’ultime fasce» (Inf. XXIV 106-111).

Nel corso dell’evoluzione del mito della fenice ( già menzionato dal poeta Esiodo e descritto nel quinto secolo a.C. da Erodoto, che collega l’Araba Fenice all’immarcescibilità dell’incenso) , questo uccello solare entra anche nel bestiario allegorico cristiano come figura di Cristo, della sua morte e risurrezione, e del cristiano destinato a risuscitare dopo la morte alla vita eterna.
Il tema cristiano della trasformazione del corpo mortale a immagine del  “corpo di gloria” del Cristo-Fenice annuncia una immortalità sovrannaturale e non ciclica.
L’immortale dannato Vanni Fucci rappresentato da Dante è invece soggetto alle metamorfosi in un giro senza fine di morti e resurrezioni continue, vale a dire senza misericordia.

La parodia infernale della Fenice cristiana  è una immortalità vana, ripetitiva e crudele come quella della natura, tautologica come quella del serpente Uroboro, mitica e artistica come quella  della fenice della lettura ovidiana – e infine fragile, disperata e malefica come l’immortalità del vampiro.
Anche nei racconti di vampiri vi sono tombe vuote. E, nell’attesa di essere invitato ad entrare, un fantasma a un tempo noto e inaspettato  ( quasi un’ombrosa parodia del Risorto) si tiene malinconicamente alla porta  e bussa mordendo il vuoto.

SOFFIARE SULLE CENERI

In un giro  senza fine  di morti e resurrezioni nello spazio bianco,  anche il movimento della scrittura apre, in qualche modo, a metamorfosi significative e quasi deliranti .
Fra morsi, rimorsi e quello che per tranquillità chiamiamo l’Inconscio o il “ritorno del rimosso”, il movimento vivente della scrittura esprime, anzi sprigiona le scintille di  uno strano fuoco. E andando oltre, sempre oltre, forse andando incontro all’ imprevisto, esprime il desiderio di uno spazio di non-morte. 

E’ come se le parole fossero pipistrelli in volo verso i lettori per rinsanguarsi. E il Vampiro  il gemello oscuro che questo o quell’autore invia, al suo posto, nel mondo.

Sembravano voler andare chissà dove, le parole, ed eccole invece ritornare come disertori…

A volte  le parole sembrano niente altro che  cenere. Le ceneri della Fenice. Perlomeno così pare, finché non incontrano un lettore attivo, diventando le rivelatrici di una Cosa ardente e come proveniente da molto lontano che cerca di farsi strada, e talvolta vi riesce – per quanto possa sembrare inaudito o subito rimosso.

Le parole che sembravano abitate dal fuoco di  una presenza, “come un biblico roveto ardente” ( Antonio Spadaro, in L’altro fuoco: l’esperienza della letteratura, Jaca Book, Milano, 2009), ora non sono altro che macchie d’inchiostro o bit che sbiadiscono con il tempo. E’ come se il libro fosse stato bucato dal fuoco del cielo.

Esporsi al vento del numinoso e delle tensioni fondamentali, così come soffiare sulle  ceneri del già detto  per far ri-prendere il volo alle parole è un lavoro  a un tempo delicato e rischioso. Occorre un punto di vista sufficientemente elevato, un’altezza che dipende da questo o quell’autore.
Giordano Bruno, per esempio, dopo una pericolosa scalata di sesto grado superiore, non resiste al rischio e al vizio della chiaroveggenza ed  evoca la fenice  definendola : “Unico augel del sol”.
 E “immortal, innocente, unico augello”, la chiama Torquato Tasso nel Mondo creato, “che della morte sua rinasce e vive”, di se stesso erede.Rovesciando una tradizione millenaria che la vuole unica e asessuata, nel breve, oscuro poemetto, La Fenice e la Tortora, Shakespeare darà  invece una compagna al favoloso uccello d’ Arabia, facendone un’ allegoria della perfetta unione d’ amore.

Baudelaire, invece, alle soglie dell’afasia, incontrerà  la fenice nella forma del disincanto e dell’ “ala dell’imbecillità che passa”. Più recentemente, nel romanzo Ucciderò Mefisto, lo scrittore Valter Binaghi narra dell’irruzione di una specie di fenice , l’airone, portatrice di istanze  “sacre” nella vita diFausto Blangé, che ne viene travolta.

Scrivere della fenice è la scrittura meno gratuita che esista, la più pericolosa. Come giocare con il fuoco, se non con la Cosa di Mosé.  Parafrasando Oscar Wilde :  “Il grande vantaggio del giocare col fuoco è che non ci si scotta mai. Sono solo coloro che non sanno giocarci che si bruciano del tutto”.

E’ come se ogni volta le ceneri della Fenice generassero un altro uccello-fenice, se non un altro Icaro. Oltre il tricotage sul buco del reale e nel simbolico, nessun nome tiene. Ad ogni ascensione/accensione dell’animale fantastico verso il sole un nome cede a un altro nome, ridotto in cenere per subito risollevarsi dalle sue ceneri.

Che strano uccello ! Mentre “Icaro” cade, metaforicamente, sulla pagina, Giordano Bruno saliva veramente al rogo –  anche e non solo per aver sognato molta legna da ardere e scritto di una fenice.

Dove anche la fenice cade, scrivere è diventare cenere d’autore – un’incenerazione del corpo dei significanti.

Se non fosse per il lavoro della metafora ( il fuoco che cova sotto le ceneri della Fenice), oltre che per il lavoro della memoria, dell’immaginazione e del simbolico, le parole non potrebbero, per così dire, ritornare in vita, prendere fuoco e propagarsi, ri-accendendosi le une dopo le altre e proiettando – nel momento in cui le si pronuncia – scintille di significanti secondari che accendono altri focolai. E’ quanto accade specialmente per la parola letteraria,  poetica.

Affinché rinasca la Fenice, occorre che un lettore attivo (non dico grande, ma non fiacco) soffi sulla brace delle parole e l’accensione si propaghi verso altri lettori che, a loro volta…vi rispondano con la propria storia, il proprio linguaggio, la propria libertà.

Ma poiché molte sono le storie possibili, o anche impossibili, e linguaggio e libertà cambiano infinitamente, la risposta a uno scrittore non può che essere infinita.
Con altre parole, volendo riprendere la questione della fenice con le parole di Roland Barthes: “on ne cesse jamais de répondre à ce qui a été écrit hors de toute réponse : affirmés, puis mis en rivalité, puis remplacés, les sens passent, la question demeure. ( Roland Barthes, Sur Racine, Seuil ed, 1963, p.11. ” Non si finisce mai di rispondere a quello che è stato scritto fuori da ogni risposta: affermati, poi messi in rivalità, poi rimpiazzati, i sensi passano, la questione resta”).”

Imbattersi nel mistero del Forno-Fenice  e  ardere senza bruciare, non è forse la paura, la folle speranza e l’arcana, fragile  felicità della fenice?  Forse è la scintilla e l’ala di un altro desiderio,  più alto delle stelle, più sottile di uno spirito e più veloce della morte.

E’ un’angoscia più intensa della gioia,
è il dolore della Risurrezione,
quando le schiere dal rapito volto
di là dal nostro dubbio nuovamente s’incontrino.
E’ l’estasi violenta che scuoterà la tomba,
quando il sudario allenterà la stretta
e creature vestite di miracolo
saliranno a due a due.

Da Emily Dickinson “Poesie”
D’altra parte è anche vero – come suggeriva anche Freud  – che  quello che non si può raggiungere a volo, talvolta lo si può raggiungere  zoppicando. Sognare la fenice e zoppicare  non è peccato.

In ogni caso, come chi nasconde il proprio folle muore senza voce, così chiunque non diventi cenere mai risorgerà con la Fenice.

 La Fenice
da Prodigiorum ac ostentorum chronicon (1557) di Licostene (1518–1561)

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