INCONTRO A MILANO CON DON DE LILLO, IN ITALIA PER IL LANCIO DI "MAO II"

LO SCRITTORE CONTRO IL TERRORISTA

di Gianni De Martino

“Nel mio lavoro, come in quello di altri scrittori cosiddetti postmoderni, l’assassinio di Kennedy è stata una data fondamentale. Fu allora che perdemmo la fiducia nelle semplici rappresentazioni lineari della storia e nelle promesse di felicità dell’America e fummo pervasi da un senso di mistero e di morte”. E’ l’affermazione di uno dei più importanti narratori americani d’oggi, Don De Lillo, vincitore di premi prestigiosi come il National Book Award, autore di romanzi mozzafiato di critica sociale pervasi da insidiosa bellezza, di cui alcuni conosciuti anche dal pubblico italiano nelle traduzioni mandate in libreria dall’editore napoletano Tullio Pironti (Libra, il romanzo che lo rese celebre sull’assassinio di Kennedy; Rumore bianco, Nomi, Cane che corre, e il recente Giocatori, storia di una coppia di oggi spinta a vivere avventure separate, un gioco molto pericoloso e alla fine fatale per entrambi).

In Italia per il lancio del suo ultimo libro Mao II ( tradotto da Delfina Vezzoli per Leonardo, pp. 234, lire 30.000), Don De Lillo ha ora 54 anni e si aggira con aria timida e quasi smarrita, a Milano, fra i tavoli del bar dell’hotel Cavour, dove arriva puntuale. In jeans celesti, la corporatura esile e l’aria di un eterno studente, si siede al tavolo e si gira rapidamente verso l’ingresso, lanciando strane occhiate mobilissime e circospette. Non sembra a suo agio. Chissà, forse stamattina ha letto i giornali e si sente colpevole di qualcosa, coinvolto in qualcosa. In ogni caso, ho avuto l’impressione, mentre stavo con lui, di trovarmi davanti a un uomo in preda alla tipica sindrome dell’americano all’estero. Della paura che l’Americano ha quando si trova all’estero parla del resto lui stesso in Nomi, un romanzo ambientato in Grecia e nel vespaio del Medio-Oriente rivisitato dai segugi un po’ suonati della CIA e pervaso dall’umorismo nero del terrore politico.

Lo si sarà capito: De Lillo è il romanziere del pianeta dei mille dubbi. Lui continua a interrogarsi sul ruolo della letteratura nella società dei terrori politici ed esistenziali, e qualcuno continua a denunciarlo come membro di una sinistra americana paranoica. Se gli si chiede se considera politici i suoi libri fa come Burroughs: fruga nella tasca interna della giacca e ne estrae ironici bigliettini sui quali ha fatto stampare I DONT WANT TO TALK ABOUT IT, ” Non voglio neanche parlarne”.

Cominciamo l’intervista parlando dei suoi libri tradotti in molti paesi e mi dice di non poterli seguire tutti. Buttando un’occhiata indietro, sopra la sua spalla sinistra, si lamenta delle molte lettere che riceve ” da gente che sembra leggermente squilibrata”. Ricordate l’inizio di Cane che corre ? “Da queste parti non se ne vede di gente normale. Non dopo il tramonto, per strada, sotto le vecchie tettoie dei magazzini. Ma questo si sa naturalmente. Ci sei venuto apposta”.
Di lui si sa che è nato a New York da immigrati italiani ( il padre era di Mongano, vicino Campobasso, faceva l’assicuratore e emigrò in America nel 1917, all’epoca dei primi grandi spostamenti, quando aveva nove anni). Si sa anche che è cresciuto nel Bronx , ha frequentato lo stesso liceo di Martin Scorsese, ha studiato e si è laureato senza entusiasmo all’università Fordham coi Gesuiti. Ha fatto lo scrittore free lance e ha pubblicizzato tessuti, prima di pubblicare il suo primo romanzo, Americana, a 35 anni, e conoscere il successo nel 1988 con Libra, la trasposisizione romanzesca dell’uccisione di Kennedy, raccontata dal punto di vista dei sogni e delle fantasie di un giovane alienato, uno spostato chiamato Oswald.
” Sì – racconta – prima vivevo nel mio piccolo universo di scrittore free lance, quell’evento fece entrare il mondo e il mistero della società nella mia scrittura”. Da allora, in circa vent’anni, ha scritto 10 romanzi sui mali apocalittici dell’America. ” La mia America – sostiene perentorio – non è un mio incubo privato, ma il ritratto molto veritiero e realistico di una realtà molto complessa, ambigua e violenta”.

In Mao II, il romanziere prende a pretesto le avventure di Bill Gray, un celebre scrittore che vive quasi come un recluso in una zona un po’ appartata nei pressi di New York, il cui terzo romanzo, fra scritture e riscritture, resta continuamente incompiuto, e che un giorno viene coinvolto da un amico nella liberazione di un altro scrittore ostaggio dei terroristi a Beirut.

– Signor Delillo, puo’ chiarire che rapporto c’è fra la letteratura e il terrore politico ? 

” Il libro è la descrizione del futuro che ci attende… Un mondo in cui la letteratura finisce ostaggio del terrore politico. Anni fa pensavo che fosse possibile per uno scrittore avere qualche influenza nella vita interna della cultura, ora mi tocca constatare che sono i terroristi a essersi impossessati di quel territorio, inquinando le coscienze e l’immagine del mondo. Scrittori come Kafka, Joyce, Beckett hanno esercitato un potere nella creazione dell’immagine del mondo in cui viviamo. Un tempo gli scrittori influivano a tal punto nella consapevolezza che le persone avevano di se stesse e dei propri atti o pensieri, che il loro modo di pensare diventava reale. In America, per esempio, abbiamo un aggettivo, kafkaesque, per indicare il modo che aveva Kafka di vedere il mondo…”

– Anche in Europa, in italiano abbiamo l’aggettivo “kafkiano”, con riferimento all’inquietudine e al mondo onirico e allucinato dei romanzi di Franz Kafka.

“La sua opera ha influito molto sul modo di vedere e di pensare della gente.”

– Mao II è, fin dall’inizio, un libro gremito di folle: allo stadio dove il reverendo Moon celebra matrimoni in serie, in televisione, nelle grandi piazze del Medio Oriente dove si radunano rivoluzionari, folle nelle strade, ai funerali, dappertutto. 

“Sì, questo è il secolo delle folle. E la questione è: chi parla a tutta questa gente ?”

– Non è più lo scrittore, figura sempre più evanescente nella società delle immagini e dei nuovi culti di massa. Ma lo scrittore non ha più alcun potere ? A parlare son rimasti solo i terroristi?

” E’ quel che succede oggi. Gli uomini che plasmano e influenzano la coscienza umana sono i terroristi. Ma il romanziere è ancora pericoloso a causa dei suoi sforzi di estendere il sé, creando un personaggio come una via per la consapevolezza, una via per lo scorrere di un significato nel caos del mondo. E in Mao II c’è una lotta fra l’individuo e gli uomini-massa che avanzano . Il terrorista cerca di parlare alla massa con le bombe, mentre lo scrittore può solo realizzare la sua visione nella struttura di un libro e nel rapporto uno a uno con il lettore. Lo scrittore rappresenta l’individuo, è un simbolo della consapevolezza che si conquista nella quotidiana lotta con il linguaggio; il terrorista rappresenta invece l’incoscienza di massa. Nell’epoca dei media tutto succede altrove, e nel privato che s’impoverisce succede sempre meno. Nella mia variazione romanzesca della realtà di quest’epoca che stiamo vivendo, e che si fa sotto i nostri occhi, c’è un movimento verso l’apocalisse, biblico addirittura”.

-“Eccoli che arrivano, marciando nella luce del sole d’America.” Il libro comincia così, con la scena potente di seimilacinquecento coppie di sposi tutte identiche nello Yanke Stadium dove il reverendo Moon celebra matrimoni di massa. Quando ha cominciato la scrittura di “Mao II” ? 

” All’inizio del 1989. A febbraio di quell’anno l’ayatollah Komheini condannò a morte lo scrittore Salman Rushdie per aver diffamato l’islàm, e questo evento seguì di poco il mio progetto e le note per il libro. Lessi dell’affare Rushdie nei giorni tumultuosi che seguirono la condanna a morte dello scrittore, che poi è diventato letteralmente un ostaggio del terrore politico.”
– In Mao II la morte si annuncia attraverso una moltiplicazione di riflessi: lampi di spari nell’oscurità, flash di macchine fotografiche, immagini moltiplicate dalla televisione…

” L’assassinio di Kennedy fu ripreso da un film amatoriale che si è moltiplicato in tutte le case ed è stato trasmesso e ritrasmesso molte volte. Il Mao II di Andy Warhol, che ho voluto anche per la copertina dell’edizione italiana, è molto significativo proprio perché si tratta di una ripetizione delle figure, differenziate solo da minimi scarti di colore. C’è la storia, la morte, e il piacere del gioco e della ripetizione. La figura di Mao come la presenta Warhol è una combinazione di arte e di produzione di massa, che però si libra al di sopra del mondo e della storia, come qualcosa di evanescente. E’ per questo che lui l’ha intitolata “Mao II”, perché non è il Mao della storia, ma quello raddoppiato dall’arte e dalla fantasia”.

– Per Bill, il protagonista del suo romanzo, lo scrivere sembra qualcosa di totale, ogni esitazione evoca l’angoscia di morte, ogni frase impegna la vita. E’ come se stesse confezionando una bomba per influenzare il mondo. La lotta con il linguaggio è come una guerra per conquistare una storia…

“L’atto dello scrivere è un grande enigma. Il critico entra nel testo per quanto può, ma poi esce sconfitto perché non riesce a penetrare questo mistero che è lo scrivere. Io scrivo a partire da un formicolìo in punta di dita. Quel che succede dopo è un mistero.”

– Misterioso, è un aggettivo che sembra convenirle molto. 

” Sì, anche l’aggettivo apocalittico…”

– Il suo pare un mondo tremendamente in bilico.

” Siamo tutti in bilico. Nei miei romanzi uso l’impressione dello stare in bilico proprio in senso tecnico, per creare una tensione da trhilling, un certo allarme, e anche un certo equilibrio nella struttura del libro. Mentre nei miei personaggi c’è sempre un forte elemento di dubbio. Io non concepisco i miei libri come un progetto di critica della nostra cultura. Inizio con voci di strada e gente che vedo e cerco di ridescriverle in una lingua che renderà più chiara la gente a se stessa, capace di distinguere. ”

E’ tutto un programma. Il bar dell’hote Cavour risuona di voci e di brusìii. Ci guardiamo intorno. Alcuni uomini si siedono al tavolo accanto al nostro. Stanno lì, in gruppo, fumando nella penombra, come in attesa di qualcuno, di qualcosa. Delillo si allarma, tossisce. L’esperienza mi dice che forse è il momento di spegnere il registratore e finire qui l’intervista. Ci alziamo, mi ricorda di mandargli un testo di cui gli ho parlato, Lo scriba e il tiranno, un saggio sull’atto dello scrivere e la trance che apparirà a marzo prossimo nella rivista di psicoanalisi e letteratura “Il piccolo Hans”. ” Non conosco bene il pensiero di Freud – dice Delillo – ma ho studiato profondamente gli scritti di Gustave Le Bon sulla psicologia delle masse…”. “Scritti di psicologia politica”, dico. E riferendomi al testo sull’atto dello scrivere: “Dove glielo mando, all’ indirizzo del suo editore?”. Don Delillo esita, viene come colto da una strana agitazione, si fruga nella tasca interna della giacca e tira fuori il suo biglietto da visita. Me lo porge dicendo con un buffo accento italo-abruzzese-americano da vicolo del Bronx: “Guardi qui, le faccio vedere qualcosa…”. Chissà, penso, forse si tratta di materiale riservato e confidenziale. Guardo il cartoncino. De Lillo mi fa notare che non c’è alcun indirizzo e che vi si leggono solo sette parole più il nome: I DONT WANT TO TALK ABOUT IT – DON DE LILLO. Sette lettere color seppia, per proteggere da qualsiasi indiscrezione la sua privacy e nascondere in una nuvola d’inchiostro quel bastardo che sfugge… Don De Lillo è uno scrittore di successo che non ama sentir parlare di politica e non vuole terroristi, giornalisti e altra gente squilibrata addosso. E’ un tipo molto riservato e misterioso che abita solo con la moglie e senza figli in una cittadina del New Jersey, il più lontano possibile dai pericoli apocalittici e le mille luci di New York.

Milano, 23 ottobre 1992

 

 

n.b. Il presente testo è la versione originale dell’intervista di Gianni De Martino con Don De Lillo pubblicata, con qualche variante, ne IL MATTINO del 28 ottobre 1992, con il titolo ” Voci dal pianeta dei mille dubbi”.

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