Gianni De Martino
Nota del curatore all’edizione italiana
in:
Georges Lapassade
Dallo sciamano al raver
Saggio sulla transe
Prefazione dell’autore alla nuova edizione
La definizione di transe come stato modificato di coscienza culturalmente elaborato e integrato a dei rituali, era già presente nella prima edizione del presente libro. Successivamente sono però giunto a evidenziare il fatto che la transe è generalmente considerata dalle società che se ne servono come una risorsa, ovvero una disponibilità cui si può ricorrere in caso di bisogno. Selezionando alcuni stati modificati di coscienza piuttosto che altri, socializzandoli e integrandoli a dei rituali, alcune società trasformano così le allucinazioni in visioni utili per la crescita personale di alcuni individui e significative per la società.
La precisazione mi sembra opportuna, perché le società, in pratica, scelgono di provocare alcune modificazioni dello stato ordinario di coscienza e di gestire tali stati in e per dispositivi istituzionali, in funzione di bisogni specifici. Alcune transe , per esempio, sono legate alle iniziazioni, altre a situazioni terapeutiche; altre ancora servono alla divinazione. Integrate alle liturgie, ai rituali e a delle cerimonie, alcune transe mirano a stabilire un rapporto diretto con il mondo invisibile.
Definendo la transe come una risorsa, il mio approccio si è distanziato per rapporto a quegli studiosi che della transe danno una definizione opposta, considerandola comunque come uno stato patologico. Tale punto di vista non va, tuttavia, totalmente eliminato. È il caso dell’isteria, una forma di transe che manifestava una patologia. Nel suo trattamento, tramite i procedimenti del magnetismo escogitato da Mesmer, e in seguito con l’ipnosi, venivano provocate delle transe terapeutiche che erano risorse indotte intenzionalmente dai terapeuti occidentali.
Quando pubblicai il presente Saggio sulla transe ero inoltre convinto che, a parte alcune pratiche religiose minoritarie, tali terapie costituissero la sola forma di transe ancora esistente nelle nostre società. Benché fossi al corrente che si potevano osservare delle transe in certe manifestazioni delle controculture giovanili – come per esempio la ricerca psichedelica, i concerti rock e l’uso della canapa – tali stati non ordinari di coscienza restavano per me imprecisi, occasionali, e non sapevo come descriverli, benché esistessero e affiorassero qua e là in contesti giovanili. Solo negli ultimi anni, la presenza e l’esperienza di transe nei raves ha offerto l’occasione di precisare ulteriormente un fenomeno che fino ad allora poteva apparire insignificante, incerto o addirittura inesistente nelle società occidentali.
Per questo motivo ho deciso di aggiungere alla nuova edizione oltre a un capitolo sui “nuovi visionari”, un capitolo dedicato alla techno-transe e all’antropologia del rave. La ricerca di un numero crescente di giovani di una rottura con lo stato di coscienza ordinario, perseguita con una certa sistematicità, non viene sempre definita dagli attori in termini di «transe», benché tale termine non sia loro totalmente estraneo. Le loro dichiarazioni rivelano infatti l’esistenza, nella loro cultura, tramite il ricorso abbastanza sistematico a sostanze psicoattive come l’ecstasy, di una ricerca deliberata di stati non ordinari, ancora poco conosciuti e che variano da un individuo all’altro, da un gruppo all’altro. Vi sono i «neo-mistici» e anche, presumibilmente in più gran numero, gli «edonisti» e gli adepti dello «sballo». Tutti hanno comunque in comune una volontà deliberata di essere per un certo periodo di tempo «fuori di sé», espressione che mi pare indicare la dimensione essenziale della transe.
La nozione della transe come risorsa costituiva già il filo conduttore del mio lavoro sugli SMC, e diventa esplicita con questa nuova figura della transe che si sviluppa nella nostra società. Questa nuova edizione del Saggio sulla transe mi offre l’occasione di ringraziare Gianni De Martino, che aveva già tradotto e curato la precedente edizione, per la pazienza dimostratami durante i molti mesi occorsi per finire i nuovi manoscritti per la presente edizione, come pure per la sua esperta presentazione finale dell’opera.
Georges Lapassade
Lecce, 29 luglio 1997
Prefazione dell’autore alla prima edizione italiana
Dopo anni di cura psicoanalitica due volte interrotta per volontà, unilaterale, degli psicoanalisti, questo ricadere continuamente nell’epatite non era il miglior segno di guarigione. Avevo raggiunto la quarantina e i miei amici della stessa età attraversavano come me una fase di depressione. In ospedale perdevo, per la prima volta, il sentimento dell’immunità fisica, di salute a tutta prova. Scoprivo la mia vulnerabilità, e cominciavo a pensare alla morte.
Un giorno, a Royaumont, un professore tunisino mi ha invitato a porre la mia candidatura per un posto all’Università di Tunisi. Mi parlava del centro culturale di Hammamet, vantava il fascino del suo paese. Ho fatto le pratiche necessarie. Ho ricevuto contemporaneamente una nomina a Tunisi e a Rabat, lo stesso giorno. Ho scelto di andare a Tunisi.
Volevo fare un viaggio senza ritorno. Ero talmente disgustato dalla vita francese, e più generalmente occidentale, che ero persuaso che la mia partenza sarebbe stata definitiva. Immaginavo che sarei guarito come Gide era guarito dalla sua tubercolosi, tra le sabbie del deserto. Non ero mai stato prima in Maghreb, e potevo sognare. Questo desiderio terapeutico alla maniera di Gide era fortissimo, e forse spiega come ho potuto avventurarmi qualche settimana più tardi, a Tunisi, nei riti di possessione.
Mi sono imbarcato a Marsiglia il 20 ottobre 1965. E qualche giorno dopo insegnavo dinamica di gruppo e psicodramma alla Facoltà di Lettere…
Un giorno, alcuni studenti hanno detto che avevano, anch’essi, una loro forma particolare di terapia di gruppo: la chiamavano stambali. Ma non era facile assistere a una danza di possessione. I luoghi di culto dei neri (le zauia, che noi chiamiamo marabouts) erano stati chiusi poco dopo l’accesso della Tunisia all’indipendenza, in circostanze abbastanza oscure mentre altri marabouts restavano aperti al culto nella stessa periferia di Tunisi.
Volevo comunque fare l’esperienza dello stambali. L’occasione si è finalmente presentata alla vigilia di Natale. Avevamo la possibilità di sperimentare l’effetto di questi ritmi in occasione di una festa istituita dagli alunni all’Istituto nazionale degli sport di Kasar Said…
Un anno più tardi, nel dicembre 1966, il mio contratto di cooperazione con l’Università di Tunisi era rotto per motivi politici: in occasione di uno sciopero di studenti avevo disobbedito, diceva il Ministro, all’articolo 2 del contratto di cooperazione che proibisce l’intervento dei cooperanti nella vita politica del paese. Ma alcuni hanno pensato che ero punito per avere, un anno prima, a Kasar Said, evocato i jnouns, i dèmoni.
La conoscenza del jazz mi aprì le porte del rituale negro. Ma contemporaneamente perseguivo un progetto psicosociologico che era nato dalla scoperta dello stambali tunisino.
Mi sembrava che se Moreno, ispirato da Freud e Stanislavski, aveva potuto trasformare il teatro in psicodramma, e fare della recitazione degli attori uno strumento terapeutico, sarebbe forse stato possibile riprendere i riti di transe che già funzionano come psicoterapie di gruppo, e farne un uso adattato alle nostre società. Avevo sperimentato io stesso, anche se troppo raramente, l’effetto momentaneo di liberazione d’uno stambali. Si sa d’altronde che la danza di possessione è probabilmente all’origine del nostro teatro. La catarsi, prima di essere teatrale, era conosciuta dai praticanti dei riti dionisiaci di possessione.
Oggi la mia preoccupazione non è più la stessa. Quando vivevo l’esperienza tunisina non sapevo ancora che un movimento di gruppi cominciava a svilupparsi negli Stati Uniti e che, in questo movimento, in parte ispirato dalla bio-energia reichiana si cominciava a ritrovare l’uso della transe.1 Il mio problema si è spostato. Si tratta adesso di ritrovare il punto d’incontro tra queste forme diverse di transe-terapeutica tradizionale e il gruppo d’incontro americano, da una parte, e d’altra parte le tecniche dell’analisi istituzionale applicate al cambiamento sociale.
In realtà la mia esperienza tunisina della transe era soprattutto, ma quasi mio malgrado, una esperienza sociologica e politica. Scoprivo dapprima che la transe era per i tunisini la malattia vergognosa della loro cultura. Questo, l’ho scoperto a Tunisi; ma ho potuto verificarlo in altri posti.
Così, giungendo una sera a Annaba, in Algeria, ho chiesto a un impiegato dello Stato di indicarmi il luogo in cui avrei potuto incontrare i musicisti neri, o la setta degli Aissaua. Il mio interlocutore mi ha risposto che queste cose non esistevano più dai tempi dell’Indipendenza. Eppure, in fondo alla strada, all’entrata della medina, si poteva leggere, sulla facciata di un grande edificio, una iscrizione a grandi lettere: CONFRATERNITA DEGLI AISSAUA. Ma è chiaro che per i giovani quadri del nuovo regime, come per tutti i giovani quadri modernisti dei paesi in via di sviluppo, i riti di possessione, dei quali si vergognano, non debbono esistere e, perciò, non esistono…
Queste società africane non hanno il monopolio della vergogna legata alle tradizioni. Durante l’estate del ’73 un giovane cineasta amico di Rouche e Jaulin presentò ad Avignone, nel quadro del festival degli Incontri Occitani un film girato in Occitania durante la festa di un santo. Non si è voluto comprendere questo film, non lo si è voluto ammettere. I guardiani avignonesi dell’ortodossia occitanista e della lingua d’oc hanno decretato che non si dava, nel film, girato sul campo, una buona immagine del “loro” popolo. Ed è sempre la stessa reazione. Immaginiamo questa gente al potere in una Occitania indipendente: la loro censura non sarebbe differente da quella dei burocrati africani. Il film sarebbe definitivamente vietato al pubblico. Si sceglierebbe, fra le tradizioni ancora vive di un popolo, quello che è “buono” e quello che è “cattivo”. In nome del popolo si vieta l’accesso a ciò che fa questo popolo. Si fa della transe un fenomeno marginale e persino proibito.
A Tunisi non avanzavo; sprofondavo invece in una ostilità generale, fino al giorno in cui ho deciso di porre le questioni che mi preoccupavano davanti a un altro pubblico: quello del festival delle arti negre, a Dakar, nell’aprile del 1966. Era un mezzo, insperato, mi sembrava, per ricollocare la musica e le pratiche dei neri tunisini nel loro contesto mondiale. Ho così potuto diffondere nel colloquio internazionale che si svolgeva nel quadro del festival una comunicazione2 consacrata alla musica negro-maghrebina, e più generalmente ai costumi e ai rituali dei neri in Tunisia. Ho presentato alla radio senegalese qualche registrazione dei Soudani. Agivo più come “militante” che come etnologo, e ciò traspariva, mi sembra, nella comunicazione che feci durante il colloquio internazionale, e che esprimeva effettivamente il punto in cui allora mi trovavo nelle mie ricerche sulla transe.
A Dakar incontro l’équipe del dottor Collomb all’ospedale psichiatrico di Fann. Assisto ad alcune sedute di lavoro, ed ottengo che un infermiere mi accompagni ad assistere ad una terapia della possessione.
Il professor Collomb ha riunito in una Società di igiene mentale non solo medici occidentali, ma anche dei ndeupokat, che sono i guaritori della possessione. Questa iniziativa tagliava netto con la sdegnosa opposizione che ho incontrato in Tunisia, dove gli esperti neri dello stambali non sono nulla, non esistono agli occhi degli psichiatri formati alla scuola dell’Occidente. È vero che durante il Festival pan-africano d’Algeri, nel 1969, ci si incomincerà ad interessare alle forme della medicina africana.
Un giorno, partiamo per un quartiere distante dalla città in cui si svolgerà il ndöp durante tre giorni. Visitiamo il responsabile politico del posto che ha dato l’autorizzazione di compiere il rituale. Ma egli stesso assume davanti a noi un’aria scettica per questi “costumi” che egli tollera, dice, senza aderirvi.
Quando arriviamo nella casa della posseduta, già si danza. C’è un gruppo di griot che battono i tamburi, il capo della confraternita e le donne che l’accompagnano. A parte la mia guida nessuno parla francese. Le danze si prolungano Sino a tarda notte, e quando terminano, e tutti vanno a riposarsi, noi rientriamo a Dakar. Al mio ritorno, il mattino del giorno dopo, il sacrificio dell’animale è già avvenuto. Si sono messe le viscere in grandi giarre di terracotta (canaris), che vengono sepolte in un angolo del giardino, dietro la casa. Alle viscere sono state mescolate erbe e ramoscelli. Sono autorizzato, ma soltanto per qualche breve istante, ad assistere a questa parte del rituale. È il samp, l’erezione dell’altare del rab. Con il ndöp ero finalmente a contatto diretto con i rituali della transe, all’origine africana dei riti.
Fu allora che incontrai Edmondo e Marie Cécile Ortigues. Preparavano un’opera, pubblicata in seguito col titolo: Edipe africain.3 E in questo libro, più tardi, ho ritrovato la descrizione del rito e le tesi che allora questi autori sviluppavano: ciò mi ha permesso di assistere al ndöp alla luce di una “spiegazione”,4 o piuttosto di una descrizione ragionata di ciò che costituiva il rituale. Ciò non mi ha protetto del tutto contro l’angoscia di quei tre giorni.
Arrivai a Bahia gli ultimi giorni del luglio 1970. Ero impaziente di conoscere il candomblé. Effettivamente allora mi sembrava che la “vera iniziazione alla transe di possessione non potesse avvenire che in uno dei grandi luoghi designati dai lavori classici: cioè a dire il vodu haitiano, naturalmente, o in mancanza il candomblé. Oggi il mio punto di vista è mutato: si può affrontare il problema della transe e farne l’esperienza attraverso le ultime tracce del menadismo greco-romano che sussistono nel sud italiano, – altrettanto che attraverso i grandi riti quali il vodu, il candomblé, la macumba. Non lo si crede, neanche in Italia, e allora neanch’io lo credevo possibile.
Giunsi a Bahia un martedì mattina, era troppo tardi per trovare subito una cerimonia per la sera stessa. Tuttavia cominciai ad informarmi. Dovevo lavorare tutti i giorni al Centro di studi afro-orientali dove incontrai alcuni specialisti come avevo fatto a Dakar all’Istituto fondamentale d’Africa nera, allora diretto ancora da Vincent Montreil, e all’ospedale di Fann, per il ndöp, nei reparti del dottor Collomb. Dopo qualche giorno d’attesa impaziente ho potuto finalmente vedere dei candomblé: quello di Minininha do Gantois – uno dei più antichi candomblé della città, vecchio di più di un secolo – e il candomblé animato da Olga do Alaketo che, com’è detto nelle guide turistiche: “il faut ne pas manquer”. In effetti, anche qui si è installato il turismo. Non ha distrutto la tradizione, ma ha rinforzato l’immagine pubblica dei grandi candomblé nago, i più “nobili”, più “puliti”, più classici.
Ciò m’infastidiva. Così, ho preferito scovare una sera, per caso, un centro che mi era stato indicato ma che trovai chiuso al pubblico. Tendendo l’orecchio, ho però scoperto un piccolo centro di candomblé di cabocles, una stanza minuscola, un rituale selvaggio che non si può evidentemente osservare presso i nago: una giovane donna in transe sacrificava una colomba, e frugava tra le sue viscere e ne divorava, ancora caldo e fremente, il cuore.
Era, lo avrei saputo più tardi, più che un candomblé, una macumba, forse addirittura la kimbanda che è la parte più selvaggia della macumba.
Da quella notte la mia scelta era fatta. Al candomblé nago di Bahia che ero andato a visitare innanzitutto per predilezione, preferivo manifestazioni afro-brasiliane meno conosciute, o meno riconosciute, più inquietanti.
Purtroppo non potevo restare a lungo a Bahia. I miei amici del Living theatre mi aspettavano a San Paolo, dove dovevo assistere con loro a un congresso internazionale di psicodramma.
Ho lasciato Bahia e i suoi candomblé, sono andato a San Paolo, poi a Rio, dove ho scoperto un po’ più tardi la macumba.
Per questa scoperta ero meno facilitato dai libri e le ricerche pubblicate. D’altra parte, sono stato se così si può dire “aiutato” a comprendere meglio “dall’interno”, attraverso una partecipazione intensa e dolorosa, a partire dal momento in cui, a Rio, i miei rapporti con il Living theatre sono giunti ad una impasse che ha provocato, il 2 ottobre 1970, la mia esclusione dal gruppo.5 A partire da quel momento sono sprofondato in un “viaggio” indotto probabilmente dalla macoñha, – così si chiama in Brasile la marijuana. Ho vissuto la paura della morte e del maleficio, ho chiesto al kimbandeiro Exu Mangueira, un giorno, di disfare il maleficio che egli attribuiva a Pantera Negra, un altro kimbandeiro suo concorrente. In quel momento ero veramente “posseduto” da Exu…
Ogni mio viaggio al paese della transe ha delle ragioni che non sono etnografiche: questi viaggi li compio da “dilettante”. È con i miei propri mezzi che resto là dove il caso mi ha condotto. A Tunisi, insegnerò sociologia; a Dakar, entra in gioco di più la mia decisione, ma a Rio era ancora per la sociologia che ero andato a Buenos Aires. Lo stesso per il viaggio italiano del 1975: ero invitato in partenza ad animare a Milano un seminario di analisi istituzionale. A partire da lí pratico la deriva, una deriva transversalista, come faccio sempre, – e tutto il viaggio al paese della transe è una deriva.
Da Milano “derivo” a Cesenatico, poi a Sant’Agata dei Goti, e questa deriva passa ancora come per caso alla Madonna dell’Arco, vicino Napoli, il lunedì di Pasqua del 1975.
Derivo da una città all’altra, da un porto all’altro: la transe – il passaggio – il porto: Tunisi, Dakar, Rio, Essaouira, infine Napoli. È sempre nei porti, vicino ai porti di mare, che sono entrato, ogni volta, nell’universo delle transe.
Il viaggio alla Madonna dell’Arco aveva per me, al termine della deriva, una importanza eccezionale. Fin ad allora avevo viaggiato lontano, in paesi esotici. Adesso, al contrario, ritrovavo la transe in terra europea, e questa transe era la “memoria” miracolosamente conservata di ciò che fa il suolo della nostra cultura mediterranea, del nostro passato greco e latino, il mio passato di occitano, la tarantella è esistita anche in Occitania, in Provenza, vicino a Marsiglia o a Nizza come a Napoli e a Galatina. Terminavo il viaggio a casa mia, nella mia terra, e questa transe del Sud italiano potevo viverla dal didentro.
Non sono a mio agio che quando sono nei porti del Mediterraneo. È soltanto lí che posso vivere. A Parigi sono in esilio, deportato, come lo sono tutti gli occitani quando emigrano a Parigi. La nostra condizione, la condizione di quelli che vengono da Pau, da Tolosa o da Nizza è quella dei siciliani e napoletani quando emigrano a Milano. Due “Sud” colonizzati dal Nord, e che conservano la memoria di un passato represso.
La tarantella è anche il vecchio ricordo di una canzone della mia infanzia. Oggi non è de bon ton ricordarsi di quelle canzoni. Tuttavia, perché vergognarsene? In quei tempi amavamo Tino Rossi, è così, è un “pezzo” dell’infanzia che vi è come aggrappato e non voglio negarlo.
“L’antica tarantella del Sud”, scrive Ernesto De Martino nella Terra del rimorso, ed è un po’ la stessa emozione che traspare in queste righe6 di De Martino, quella che io provai quando la sentii. Questo testo è quello che mi ha aiutato a comprendere ciò che avevo intravisto a Tunisi per la prima volta: la transe, la terapia dei posseduti, il rituale della possessione.
Un altro apporto di questo libro sulla “terra del rimorso”, è di mostrare come la tarantella sia il ricordo conservato della tradizione della Magna Grecia, dei grandi culti orgiastici, del menadismo, di Dioniso, di Bacco.
Il tarantismo di Puglia non è la sola traccia di questo grande passato, di questo “vodu” italiano, mediterraneo e occitano. Vi è l’argia della Sardegna. E il pellegrinaggio della Madonna dell’Arco, con i suoi soggetti in crisi, la lunga e dolorosa processione sotto il sole cocente, l’entrata in chiesa, e di sera, al ritorno, la festa nei villaggi. Vi sono ancora i carnevali del Sud, tutte le feste che gli italiani ritrovano oggi: i suonatori di tamburo in transe, – e Dioniso che non può morire.7
Si sa che Dante aveva pensato di scrivere il suo capolavoro in occitano prima di decidere di scriverlo in italiano. Penso sia facile comprendere come un occitano, qualcuno che proviene dal “midi de la France” e che non si considera del tutto francese ma un colonizzato, possa “sintonizzarsi” direttamente, non appena è in Italia, con la questione meridionale, – e riconoscere nella tarantella la sua canzone.
Per me la Madonna dell’Arco è tutto questo. È il segno vivente di una mediterraneità della transe: dall’Andalusia all’Occitania, dall’Occitania alla Sardegna, dalla Sardegna alla Corsica con le sue prefiche, e alla Grecia. Poi, dall’altra parte, la Tunisia e il Marocco: il Maghreb. Ecco il vero legame del mio viaggio al paese della possessione.
Era giusto e necessario che questo viaggio terminasse a Napoli. Lì avevo il diritto d’entrare nella folla e nel santuario, non ero più come a Tunisi o a Essauira lo straniero, il roumi (l’occidentale) presso i musulmani. A Napoli sono roumi presso i roumi.
Essaouira: questa città marocchina mi ricordava Bahia, e Venezia: una città portuale addormentata nei ricordi del proprio passato, una città in declino e come abbandonata. Ho descritto un po’ più tardi questa città, raccontando come alcuni giovani avessero scritto: “città in vendita” sui cartelli indicatori dell’entrata, per denunciare lo stato d’abbandono.
E soprattutto, ho scoperto gli gnaa. Questo gruppo di terapeuti praticava cerimonie rituali domiciliari chiamate derdeba. Gli gnaua vivevano un momento d’intensa attività, ma anche di mutazione profonda. Il living non era del tutto estraneo a tali trasformazioni. Più esattamente, aiutava a teorizzarle. Le disgrazie della “modernizzazione” di queste tradizioni africane erano i “freaks”: i giovani viaggiatori occidentali, già da qualche anno. In tal modo incubava un movimento che sarebbe esploso un po’ più tardi nella nuova cultura folk marocchina con i Nass el Ghiwane ed i Jil Jilala. Ho interrogato gli gnaua e le loro famiglie. Ho così potuto, senza avere ancora la possibilità di assistere ai riti terapeutici fatti a domicilio, descrivere esattamente i rituali dei neri marocchini. È soltanto durante l’estate del 1975 che sono entrato, non senza difficoltà, nelle case in cui era praticata la cura domiciliare. Già avevo intravisto, in Tunisia durante l’estate del ’65, la cura domiciliare. Mi ci sono dunque voluti dieci anni per accedere all’osservazione diretta dei riti terapeutici negro-maghrebini. Questa possibilità metteva fine all’impressione di incompiutezza e di blocco che trascinavo con me fin dalla Tunisia.
È un viaggio che inizia nella confusione e la premonizione. Entravo nel paese immaginario della transe senza il conforto di nessuna religione, avanzavo a tentoni, correndo contemporaneamente in tutti i sensi. Ero contemporaneamente antropologo, regista, provocatore, ed ero evidentemente rifiutato in tutti i ruoli.
I problemi inizialmente sollevati si risolvono a poco a poco, ma lentamente, molto lentamente, nel corso del viaggio. E la scrittura contribuisce a questa catarsi: raccontarlo, scrivere, mi obbliga evidentemente a mettere ordine in questo disordine, ma anche a riesaminare gli avvenimenti passati, a trovarvi una logica visibile, una concatenazione.
Oggi, diventa sempre più chiaro che la transe, o la memoria della transe entra nella nuova cultura (preferisco tale termine a quello di controcultura).
Nuovi movimenti che hanno conquistato l’udienza delle masse, e soprattutto dei giovani, sono nati nel corso di questi ultimi anni e diffondono ovunque un sapere sulla transe che fino ad oggi era solo una questione riservata agli specialisti.
Al termine del viaggio, sulla soglia di una nuova partenza, ho voluto fare il punto, ed ho scritto questo libro.
Milano, 13 aprile 1978.