Ragno gigante mangia un uccello

RAGNO GIGANTE
MANGIA UN UCCELLO
Fotografie di un ragno gigante mentre divora un uccello intrappolato nella ragnatela hanno sbalordito gli esperti della fauna selvatica.
 Images Gallery 2008 10 23 117821«Il grosso ragno (grande quasi come una mano) appartiene alla specie dei Golden Orb Weaver, di solito divora grandi insetti. E’ veramente raro vederlo mangiare uccelli», ha detto Joel Shakespeare, custode del Parco del rettile australiano.
Come riferisce il quotidiano australiano «Cairns Post» ,le sorprendenti immagini sarebbero state realizzate in un giardino a Atheron, nella zona nord tropicale del Queensland, in Australia.
 
 
 
 
 
 
Altre foto (pare attendibili) su : Telegraph
 
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Strategia del ragno

ARACNOFILIA
 STRATEGIA DEL RAGNO
Arachne
Al ritorno a casa da un lungo viaggio, mentre mi spingo  in un angolo a scrivere, sollevo gli occhi dallo schermo del pc e scorgo sul soffitto una piccola ragnatela.
Quando vedo una tela di ragno, non oso mai toglierla. Penso sempre vedendola al lavoro di Aracne, questa sventurata fanciulla di Lidia che osò superare Atena nell’arte della tessitura e, per aver sfidato il Potere con la sua fragile arte, fu trasformata in ragno.
Cosa aveva fatto, sfidato gli dèi ? Di più, aveva dato prova di libertà creativa. Mentre infatti Atena con la sua tela aveva rappresentato in maniera convenzionale le grandi imprese divine,  Aracne invece aveva raffigurato gli amori di alcuni dei, svelando le loro colpe e i loro inganni. Quando il lavoro fu completato, la stessa Atena dovette ammettere che la tela di Aracne aveva una bellezza che mai si era vista, ma  non tollerando l’evidente sconfitta della Doxa imperante e il fatto che l’arte venisse meno al suo compito di difesa sociale e delle istituzioni, con rabbia afferrò la tela della rivale e la stracciò in mille pezzi.…
Lacerante esperienza.  Dopo un momento di afasia,  pensando ad Aracne e al suo desiderio dissidente, ti vedi alzarti dalla sedia e andare verso la libreria per cercarvi il libro di Ovidio : 
« …. non tulit infelix laqueoque animosa ligavit guttura: pendentem Pallas miserata levavit atque ita "vive quidem, pende tamen, inproba"  dixit, " lexque eadem poenae, ne sis secura futuri, dicta tuo generi serisque nepotibus esto! "  Post ea discedens sucis Hecateidos herbae sparsit: et extemplo tristi medicamine tactae defluxere comae, cum quis et naris et aures, fitque caput minimum; toto quoque corpore parva est: in latere exiles digiti pro cruribus haerent . » 
 [La poveretta non lo tollerò, e corse impavida a infilare il collo in un cappio. Vedendola pendere, Pallade ne ebbe compassione e la sorresse, dicendo così:” Vivi pure, ma penzola, malvagia, e perché tu non stia tranquilla per il futuro, la stessa pena sia comminata alla tua stirpe e a tutti i tuoi discendenti!” Detto questo, prima di andarsene la spruzzò di succhi di erbe infernali, e subito al contatti del terribile filtro i capelli scivolarono via, e con esso il naso a gli orecchi; e la testa diventa piccolissima, e tutto il corpo d’altronde s’impicciolisce. Ai fianchi rimangono attaccate esili dita che fanno da zampe. Tutto il resto è pancia. ma da questa Aracne riemette del filo e torna a rifare – ragno – le tele come una volta ». ( Metamorfosi, VI ) ].
Ricordi una illustrazione di Gustav Doré che da bambino ti faceva paura: quella di Aracne citata da Dante nel Purgatorio… E cerchi l’immagine su Google ( “Google è il ragno della rete”).
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Aracne è raffigurata ai piedi di Dante e di Virgilio, e – come il testo di cui parlava Roland Barthes –  sembra dire al suo lettore : « Sono tua, possiedimi ».
Poi ricordi che Aracne è citata pure  da Virgilio nelle Georgiche,  da Boccaccio nel De claris mulieribus, da Giambattista Marino nella poesia “Donna che cuce”, e non so da chi altro… Kafka ? No, era Gregorio Samsa… quella strana bestia non era un ragno ma una specie di millepiedi o scarafaggio ( "un insetto mostruoso").
 Ormai prigioniero dello strano desiderio di scrivere, inizia una vera e propria strategia del ragno, come se fossi “posseduto” dalla figura di Aracne – l’industriosa madre della tappezzeria, della tessitura, del testo…  
Del testo ? Il riferimento al Piacere del testo è quasi automatico : «  ‘Testo’  vuol dire ‘Tessuto’; ma laddove fin qui si è sempre preso questo tessuto per un prodotto, un velo già fatto dietro al quale, più o meno nascosto, sta il senso (la verità), adesso accentuiamo, nel tessuto, l’idea generativa per cui il testo si fa, si lavora attraverso un intreccio perpetuo; sperduto in questo tessuto – questa tessitura – il soggetto vi si disfa, simile a un ragno che si dissolva da sé nelle secrezioni costruttive della sua tela. Se amiamo i neologismi, potremmo definire la teoria del testo come una "ifologia – hyphos, è il tessuto e la tela del ragno » (Barthes,  Il piacere del testo ).
Se la teoria del testo sarebbe « ifologia », allora potremmo definire la letteratura come una forma di aracnofilia… Una battuta, perché no ? Evidentemente – dici a te stesso, per tranquillità –  il desiderio che fa scrivere e generare un testo è altro da quello che fa parlare ;  e indietreggi davanti alla confessione di considerarti un… tarantato.
 Insomma, l’atto dello scrivere è caso e causa di un certo sdoppiamento di sé. E pare che le parole abbiano, come ragni, preso possesso del corpo che lo scrive… Ecco, non sapendo cosa dire ti metti a scrivere…di ragni, di mosche , di virus.  E tuttavia la tentazione delle parole, il piacere di farne il testo, preesiste.
Barthes direbbe che a prendere possesso del corpo è la lingua. Una lingua che preesiste, che viene prima del soggetto scrivente. La lingua sarebbe il vero autore del testo, della fragile ragnatela di parole. Di contro al diktat e alla seriosità della lingua, che è fascista e si prende per il verbo o la natura in persona, Barthes intravede la possibilità di ribellarsi giocando con la lingua. Naturalmente il truffatore della lingua arriverà a godere di uno sfiguramento, « uno sfiguramento della lingua », e l’opinione pubblica, se non «  pubica », griderà allo scandalo, « perché non sta bene sfigurare la Natura ». Sfigurare L’anatura ? Proseguendo nella sua opera di demolizione, R.B. affermava che il testo dice al suo lettore: «Sono tuo, possiedimi».  Così, s’instaura una specie di rapporto amoroso, un certo tipo di rapporto affettivo, quasi maniacale, con il testo-corpo. 
Si tratta, nello stesso tempo,  di una sorta di rivolta dell’individuo contro le strutture sociali che regolano il foucaultiano ordine del discorso, contro le istituzioni letterarie che regolano la distinzione tra buona e cattiva formazione del testo e, infine, rivolta contro la langue intesa come obbligo a scegliere “un linguaggio” come contrassegno identitario
E’ il sogno di “una storia patetica della letteratura”, di contro alla gestione tecnica, prudente, informata del patto critico, ammantato di dubbi etici, teoria dei generi letterari e sociologia della letteratura. Insomma, a garantire la verità di una lettura non resterebbe altro che il piacere
Qualcosa, del testo, penzola. Dissimulate, esili dita che fanno da zampe e un resto di pancia attendono… In attesa di quale mosca ? Del lettore-modello, evidentemente. Insomma, il famoso « transfert ».
Perché scrivo? Perché ho letto, certo, ma anche per fare qualche prigioniero nello scritto ( come Don Chisciotte della Mancia che, vittima dei libri, romanzi di cavalleria, si convince di essere « chiamato » a diventare un cavaliere errante ; e si mette quindi in viaggio per difendere i deboli e riparare i torti – trascinando con sé un contadino del posto a fargli da scudiero).
Eccoci  dietro quella puttana di  letteratura, se non in piena letteratura, tra l’ordito e la trama di un testo. In attesa di Aldonza Lorenzo, cioè Dulcinea del Toboso, e di segni, in attesa dei segni… come un semiologo che gioca a prendere il lettore per i fondelli o un ragno avviluppato e nascosto dietro la sua ragnatela. “Avete bisogno di parole?”.  La tela di Aracne vi aspetta. E vi mette in gioco nella vita così come nella scrittura.
 « Sarebbe bello inventare una nuova scienza linguistica; questa non studierebbe più l’origine delle parole, o etimologia, né la loro diffusione, o lessicologia, ma il progresso della loro solidificazione, il loro ispessimento lungo il discorso storico; questa scienza sarebbe senza dubbio sovversiva, manifestando molto più che l’origine storica della verità: la sua natura retorica, di linguaggio » (Barthes,  Il piacere del testo ).
Ecco un’occasione per mostrare dove si può andare sul cammino della scrittura e i suoi trucchetti : non solo verso altre scritture, ma anche verso il lettore-modello che non esiste ( o non risponde ),  e finalmente verso quel  « vuoto » che sarebbe alla fine della catena dei significanti. Insomma il « gorgo vuoto » del godimento scrittorio. A queste condizioni, « il testo non è mai dialogo :esso istituisce in seno al rapporto umano, corrente, una sorta di piccola isola, manifesta la natura asociale del piacere” (R. Barthes).
Il gioco con la lingua-madre ( il ragno sarebbe il simbolo della madre ) e il piacere del testo comportano una specie di asocialità, come se oltre il testo, questa piccola isola o imbuto del privato, non ci fosse una storia, un contesto, un  pubblico, non ci fosse più niente. Nella sfida al dèmone dei grandi sistemi teorici ( o semplicemente del « sistema », come si diceva ai tempi di Barthes),  la soluzione ludico/narcisistica antagonista non è priva di insidie, d’ingannevoli fascinazioni e di pericoli. Non solo Minerva potrebbe in qualsiasi momento strappare la tela, ma forte e terribile potrebbe essere la tentazione, se non il richiamo del nulla e della morte.
A volte le parole riempiono i buchi, come fa la morte. Altre volte tessono tra presenza e assenza un intreccio perpetuo, come Aracne penzolante con esili dita e quasi persa, dissimulata , se non proprio « dissolta » nel suo tessuto. Non a caso, zio William Burroughs, quando si sentiva  “invaso” dal “virus del linguaggio" si chiedeva  chi avesse preso il posto della « carne che scompare ». Le parole, che altro ?
 Forse per questo gli Alchimisti suggerivano di strappare i libri, tutti i neri libri di Alchimia, prima che ci venisse strappato il cuore ( frangite o rumpite libros ne corda vestra rumpantur).  
Non ditemi che l’Arte è una via d’uscita. Solo all’uscita dalla rete vuota, ci si accorge, talvolta, di avere ancora naso, orecchio e mano. E nella mano che prima scriveva, un bel pugno di mosche…Magari saranno anche mosche bellissime, non di città, ma mosche marine, saline, iridiscenti arcobaleni. In ogni caso, sempre mosche sono. Non ditemi che la bellezza salverà il mondo.  « La letteratura non salva, mai », diceva l’amico letterato P.V.T. E Rimbaud, avendola trovata amara, un giorno, all’alba, prese la bellezza sulle ginocchia, e giustamente le diede tante sculacciate.
Può anche capitare di avere la sensazione, se non la concreta percezione, che il famoso labirinto sia un guscio di chiocciola schiacciato tra le dita.  
Il vero autore ( che forse non esiste ) sarebbe al di fuori del linguaggio e di quell’ oscuro guscio di chiocciola o luminosa ragnatela che, per tranquillità, chiamiamo testo.Tuttavia, non perso o disfatto nella tessitura, un soggetto che non è lo scrivente conserva la sua parte.
 Evidentemente  al desidero ( che « non è una cosa semplice» ) , non basta la libertà linguistica ( anche se è importante). Non basta neanche una certa felicità espressiva  nel « truffare la lingua » e concepire la letteratura esattamente come « questa truffa salutare che permette di concepire la lingua al di fuori del potere, nello splendore di una rivoluzione permanente del linguaggio » ( Barthes).  Rivoluzione permanente, splendida nell’immaginazione dei trotskisti, come quella sognata dal marxismo del secolo scorso.
Oggi – all’alba dei crac e delle disillusioni cocenti,  nell’epoca della gestione ottimale dei bisogni – si desidera dell’Altro, o forse non si desidera affatto ;  e ci si accorge che mancano le parole per dirlo. Forse per questo, o anche per questo, oggi uscire dal silenzio, così come ritornarvi, non è facile.
E in casa, durante il viaggio, in ’assenza del padrone di casa  si formano ragnatele : fragili ragnatele  che, per il rispetto che si deve all’indocile Aracne, non oso togliere.
 
 Immagine
Die Lydierin Arachne ist eine Meisterin der Webkunst.
(John William Waterhouse, 1916)
 
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IL LETTORE MODELLO

SEMIOLOGIA
 
IL LETTORE – MODELLO DI ROLAND BARTHES
 
“Il testo che scrivi deve darmi  la prova di desiderarmi” ( Erbé)
 
“Il testo non è mai un dialogo: esso istituisce in seno al rapporto umano, corrente, una sorta di piccola isola, manifesta la natura asociale del piacere” (R. Barthes)
 
“I rapporti che intrattengo con questa opera-personaggio, questo testo-persona, questo testo-corpo, e che sono rapporti da romanziere a romanziere, definiscono un certo tipo di rapporto amoroso, di contatto affettivo” ( Alain Robbe-Grillet , Perché amo Barthes)
 
L’amico poeta Ermanno Krumm, prematuramente scomparso, raccontava che nell’inverno del 1971 (quando seguiva il suo seminario sulla storia della semiologia), s’incontrava con Roland Barthes  a ‘Le Bonaparte’, un bar di Saint Germain des Prés. Una volta gli chiese: «Ma che cos’ è davvero il significante?». Sorrise: «A saperlo…».
Forse il significante non è proprio come quella rosa di Angelus Silesius, che “fiorisce perché fiorisce, / di sé non si cura, né chiede d’esser vista”.
 
 
 ( foto di Mikel Marton). 
Immagino che questo ragazzo con ragno tra le dita –  un significante qui raffigurato per essere visto in rete –  potrebbe aspirare al trono di  lettore-modello  di  R.B. ( fanciullaio che  la langue direbbe « omosessuale », provinciale, scrittore di successo avversato dall’accademia, morto in un giorno di marzo del 1980, anno in cui  un furgone di lavanderia – panni sporchi ? – lo investì e uccise mentre attraversava distrattamente la strada dopo un pranzo con amici).
Naturalmente questo giovanotto così quietamente insessuale, potrebbe aspirare al trono di  lettore-modello  di  R.B  e al transfert, se oltre che carino e affettuoso (come sembra nella foto ) , avesse anche la competenza ( possibilmente enciclopedica) per comprendere appieno il testo. 
P.S. Un semiologo come Eco direbbe forse che si tratta di figura teorica proprio perché collettiva, mediana e androgina, ottenuta per approssimazione (proprio come la langue?). 🙂
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Écrire

ÉCRIRE
 
Écrire, ça serait tout à fait bien si on pouvait en même temps
voir ce qu’on écrit, si les mots pouvaient bouger et changer de
place comme les oiseaux, voyager. (JMG Le Clézio, da  L’Inconnu sur la terre )
 
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Miroir et Mémoire di Abdelkader Mana

Etnografia
Miroir et mémoire
 
di Abdelkader Mana
 
 
 
 
 A  Essaouira gli Ghnaua hanno celebrato una “lila” nella zaouia di Sidna Bilal in suffragio dell’anima del loro amico Georges Lapassade  , deceduto in una clinica di Parigi il 30 luglio scorso.
 
Al ritorno da Essaouira (الصويرة ), inserisco, col suo permesso, uno scritto  di  Abdelkader Mana sulla figura e l’opera di Georges Lapassade in Marocco.
 
Le chant de la macumba du Brésil, le stembali tunsien, les gnaoua marocains et enfin le rap parisien, partout où il allait Georges était fasciné par la contre- culture et les rites de possession de la diaspora noire et il les mettait à l’honneur, ce qui lui valu une distinction honorifique de Léopold Sédar Senghor, et une lettre de félicitations personnelle de Sa Majesté le roi Mohamed VI, lors de la parution, en 2000 chez Atlantica Eds, de son ouvrage sur les Regraga  intitulé D’un marabout, l’autre ( à la manière D’un château, l’autre de Céline) et illustré par les photographies de Frederic Damgaard.
 
Il venait surtout à Essaouira pour écrire tel ou tel de ses livres comme il le raconte dans son
L’ Autobiographe :
 
 «  Je revenais de Marrakech par l’autocar de la nuit. C’était une nuit de ramadan. Au levé du jour, le car s’est arrêté en rase campagne. Et ils sont descendus du car pour prier…Il faut un désir plus haut que la mort habituelle et plus haut que l’ennui pour que soudain, c’est tout à fait imprévisible, on puisse commencer à délimiter un espace blanc, comme des marques de fortune dans le désert des pierres blanches posées sur le sol pour une prière. Il conviendrait de justifier ce blanc où des mots peuvent s’inscrire à condition d’écrire selon la loi. Dans cet espace blanc ainsi délimité nous serions tournés vers l’est, très attentifs. Le jour se lève à l’est dans une lueur cassée, une lueur de nuit défoncée par le jour. La lune n’a jamais cessé d’éclairer la plaine pendant notre voyage toute la nuit la lune toujours là-haut dans le ciel, le temps est suspendu au fil de l’indécision comme si le jour hésitait à se lever….Je fais un effort pour écrire sur ma vie à Arbus ; il me faut pour cela retrouver des souvenirs. Je vais essayer. Toutes nos fêtes étaient religieuses. Elles marquaient la marche du temps. »
 
 Et à Essaouira, il s’intéressait beaucoup aux fêtes religieuses, celle des Gnaoua au mois lunaire de Chaâbane, celles qui célèbrent la nativité du Prophète, mais aussi aux fêtes saisonnières en particulier le pèlerinage circulaire des Regraga. J’avais déjà lu son brillant article sur l’Emile de Jean Jacques Rousseau qu’il avait publié dans la revue "Métaphysique" en 1952, aux côtés de Bertrand Russel, mais je le voyais de loin enquêter à Essaouira sur les Gnaoua.
J’enseignais alors au Lycée Akenssous de la ville. Un jour, au tout début des années 1980, le proviseur du lycée m’invita à une réunion prévue vers 16 heures à la Chambre du commerce, entre Georges Lapassade, et les connaisseurs du Malhoun de la ville. La réunion était provoquée par Georges qui enquêtait alors sur Ben Sghir, le chantre du malhoun souiri. A l’origine de cette enquête, un article où Hachmaoui et Lakhdar, résumaient la qasida de Lafjar (l’aube) de Ben Sghir sans donner le texte. Après cette réunion à la chambre du commerce, Georges m’embarqua dans l’enquête sur les traditions musicales d’Essaouira et de la région qu’il menait à l’issue du festival d’Essaouira (1981). Une fois à Paris il me faxa ce qui suit à propos de l’article controversé sur le malhoun :
 
 « Ce qui choquait mon esprit de cartésien,
y écrivait-il
, c’est que nous avons découvert que le cahier d’un certain Saddiki (grand’père du prof. d’histoire du même nom) qu’il avait exposé au Musée et « commenté » était daté en réalité de 1920, et non de 1870 comme ils prétendaient, tirant argument de cela et du contenu du cahier, pour inventer une sorte de pléiade poétique souirie qui aurait eu pour mécène vers 1870, à Essaouira, Moulay Abderrahman ! C’est cela que je contestais beaucoup plus que l’origine souirie de B.Sghir. En effet, ce cahier contenait des qasida diverses, recueillies (peut-être) par le grand’père Saddiki au cours de ses voyages à Marrakech qui du coup devenait souiri ! Etant donné l’impossibilité d’avancer à Essaouira, j’ai fini par me décider d’aller consulter à Marrakech Maître Chlyeh, animateur d’une sorte d’Académie du malhoun. Il m’a fort bien reçu, bien informé et je crois (sans en être sûr) que la version de Lafjar que j’ai ensuite diffusé à Essaouira venait de lui »
 
Toute la démarche de l’enquête ethnographique de Georges Lapassade réside dans ce texte : alors qu’il demandait des informations sur Ben Sghir, au bazariste Ben Miloud, celui-ci était assis sur un vieux coffre qui contenait plein de qasida, dont celles de Ben Sghir ! C’est pour contourner cette rétention d’informations, ces réticences locales qu’il se voyait obligé de se rendre à Marrakech pour obtenir la fameuse qasida de Lafjar (l’aube) !
 
   L’enquête pourrait durer des années, chaque été il revenait à la charge avec son obsession de chercheur et son doute cartésien pour reposer encore et toujours l’énigme Ben Sghir. Il soulevait d’autres lièvres qu’il problématisait à souhait alors même qu’on croyait avoir affaire à des évidences : le sultan Sidi Mohamed Ben Abdellah avait fondé le port et l’ancienne kasbah et non pas toute la médina comme on le croyait auparavant. Le plan établi par Théodore Cornut en 1767 est là pour prouver que Georges avait raison.[1] Au XVIII ème siècle, en dehors de la Kasbah, les gens habitaient sous des tentes et dans les casemates qui donnaient à Essaouira un visage militaire, à côté du quartier administratif.

De même l’emplacement du Castello Real des Portugais se trouvait d’après une ancienne carte établie par Lambrecht, au port et non pas à l’embouchure de l’oued Ksob où se trouve borj el baroud. Cette erreur a été souvent commise concernant l’emplacement exact de la forteresse. On donnait, comme ruine de l’ancien fort portugais, un bastion rond situé dans les dunes, auprès de l’ancienne embouchure du Ksob, non loin du palais ensablé bâti au XVIII ème siècle par Sidi Mohamed Ben Abdellah. Ce fort n’a rien de portugais, affirmait Georges à juste raison. Il s’agit simplement d’une batterie construite, elle aussi, par le sultan. Toute sa démarche en matière d’enquêtes ethnographique est fondée sur ce doute cartésien, cette remise en cause permanente des évidences à la Ptolémée.
 
     Pour ne pas « bronzer idiot » sur la plage d’Essaouira, Georges aura à résoudre une autre « énigme », qui relève cette fois-ci du Maroc antique.Jusqu’en 1950, on pensait que les Phéniciens et les Romains n’avaient peut-être pas dépassé le Nord du Maroc, alors que du côté de Luxus et Volubilis on avait les preuves évidentes de leur présence, il n’y avait rien de semblable au Sud jusqu’au jour où des enseignants, MM Desjacques et Koeberlé allaient entreprendre des fouilles systématiques dans l’île de Mogador, qui prouvent que le monde antique allait en réalité beaucoup plus au sud que le fameux limes, plus exactement jusqu’à l’île de Mogador qu’on peut identifier à la mythique Cerné qu’évoque le périple d’Hannon .
 
       En 1985, Georges Lapassade profite du passage dans la ville de Desjacque et de sa femme pour les interroger à ce sujet, et publie le résultat de cet entretien sous le titre : « la petite histoire d’une grande découverte » [… ] .  « Le site de l’île comme lieu de fouilles a été trouvé on l’a vu, par hasard alors qu’on y cherchait des silex taillés…Le succès de cette recherche devrait inciter nos archéologues marocains à rechercher d’autres traces d’antiquité sur le littora », concluait Georges qui ne croyait pas si bien dire, puisque récemment encore, des marins ont pris dans leurs fillets , deux amphores antiques, tout à fait intactes, recouvertes seulement d’algues et de coquillages…
 
      Lors de ses séjours à Essaouira, Georges aimait souvent se rendre à ce borj el baroud lieu de ralliement du mouvement hippie dans le sillage duquel il avait découvert pour la première fois Essaouira en 1969 avec le Living Théâtre
:
 
« 19 h 30. La sirène du ramadan a hurlé, ce soir pour la première fois. Il fait presque nuit. Tristesse maintenant sur la ville déserte. Je retrouve l’angoisse de l’année dernière. Les lumières de la rue s’allument lentement….Le soleil s’est levé tard ce matin. Il faisait froid, un petit vent mauvais courait sur la plage, au ras du sable, jusqu’aux grandes dunes qui entourent, là-bas, le borj el baroud. Il m’a semblé tout à l’heure que j’allais enfin me décider à écrire le récit chronologique de mon enfance, puis de ma jeunesse, jusqu’à mon départ définitif d’Arbus et mon installation à Paris. J’ai cru que j’avais retrouver le courage nécessaire pour me lever à des heures fixes et travailler. J’étais convaincu que ce moment tant attendu était enfin arrivé, après une longue attente. La chaleur de l’été est enfin revenue. J’ai retrouvé ma chambre d’autrefois inondée de soleil tout le jour. Je peux contempler le mouvement incessant des bateaux dans la baie, et dans le port. Hier j’avais décidé d’écrire le récit de mon enfance. Mais je ne trouve que des bribes de souvenirs. Je ne sais comment les souvenirs arrivent à ce moment-là, ni pourquoi tel souvenir plutôt que tel autre…La journée sera chaude comme hier, j’irai à la plage, je marcherai jusqu’au borj el baroud, j’irai m’étendre dans les dunes. Je reprends goût à la vie. Je n’ai plus envie de travailler, je dois faire un assez grand effort pour écrire seulement quelques lignes chaque jour. »
 
   De cette période hippie où Georges encore dans la force de l’âge est arrivé à Essaouira avec sa pipe et ses fréquentations assidues à Bijou-bar, restent des réminiscences
:
 
« L’autre jour, j’avais fumé un peu d’herbe, assez pour ne pas tenir debout tout à fait. Je me suis allongé sur une banquette au café hippie, et Majid, qu’ils appellent Speed, m’a interpellé ; je l’ai regardé, et j’ai vu en même temps, sous le masque de son rire, un autre visage, plus sombre, fermé, immensément triste, comme on voit chez les Grecs, le masque des rires avec le masque des pleurs. Et cet autre visage qui est toujours derrière les mouvements de la vie, c’est déjà, j’en suis persuadé, le visage de notre mort.
–         Et si tu mourrais maintenant, dit Mourad. Si tu devais dire ce que tu regrettes de n’avoir pas fait dans ta vie, qu’est-ce que tu pourrais répondre ?
          J’ai répondu que je n’avais pas de réponse. J’en avais une pourtant : que mon seul regret serait d’avoir manqué ma vie à force de penser à la mort, de n’avoir pas vécu chaque instant de ma vie comme un moment possible de bonheur. »
   
 Pourtant nous avons connu des moments de bonheur, au printemps des Regraga, lors de nos voyages communes à la vallée d’ Aïn Lahjar (la source de pierre). C’est là qu’on avait découvert ensemble, lui et moi, « la fiancée pétrifiée » du Sahel, et le concept de faïd comme débordement de l’eau et de la baraka. Un jour on est même partis ensemble, en autocar jusqu’à la vallée heureuse de Tlit, entre le mont Tama et le mont Amsiten, en pays Haha, pour enquêter sur le chant des moissonneurs. Mon oncle maternel nous reçu alors avec le cérémoniel du thé, avec des amandes, et des galettes de seigle, à tremper dans l’huile d’argan et le miel de thym . Mon oncle maternel disait alors à ce Béarnais que je croyais parisien et qui a toujours gardé une âme paysanne lui venant de son enfance passée dans ces « Pyrénées-Atlantiques », comme on les appelle si joliment en France. Mon oncle donc disait à Georges 
  :
 
                   « Le poète et la hotte sont semblables, personne n’en veut s’il n’y a pas de pluie et donc de récolte. ».
 
     Et Georges qui avait aidé jadis son père à la scierie dans la forêt béarnaise comprenait parfaitement ce langage et en avait même la nostalgie. En lisant maintenant son Autobiographe, je comprends à quel point son intérêt pour notre culture était sincère, car tant d’affinités électives reliaient secrètement les traits culturels de son Béarn natal au mouillage d’Amogdoul d’ où chaque été il jetait l’ancre pour écrire :
 
« Dans le temps du carnaval, entre le premier de l’an et Mardi-gras, nous allions danser chaque dimanche dans le quiller de l’estanguet, sur la terre battue. Les musiciens s’installaient sur un petit balcon de planches, pour jouer des marches et des javas, avec quelques guigues et quelques sauts basques. D’autres souvenirs reviennent : le jardin de l’école, les grilles rouillées du portail. Un phono avec des disques ébréchés dans un placard. Ce vieux phonographe, posé sur une petite table dans la salle à manger de ma grand-mère, remplaçait un phonographe plus ancien muni d’un grand haut-parleur en entonnoir qui traînait dans le grenier au milieu des toiles d’araignées. »
 
De là, me semble-t-il, sa passion pour le carnaval d’Essaouira, cette compétition chantée, ce charivari, qui opposait jadis, à chaque Nouvel An, les deux clans de la ville et surtout le couplet du rzoun de l’Achoura relatif au phonographe
:
 
« Permettez-moi donc d’avouer
Les soucis qui m’oppressent
Et si je meurs, que personne ne me pleure
Mais quel est votre chef ô Chebanate ?
Osman à la tête bossue
Et à la bedaine serrée d’une cordelette ?
Et qui est votre chef Ô Béni Antar ?
Ali Warsas traînant au port son chien
Éternellement sur son âne ?
Pourquoi donc avez-vous remplacé,
Les chanteurs du malhoun par le phonographe ? »
 
      C’est lui qui, le premier, par ses nombreux articles, avait vulgarisé l’idée selon laquelle « Essaouira est la ville des Gnaoua ». Il avait longtemps enquêté sur leurs rites de possession, sur ceux des gens de l’ombre, ces Hamadcha et ces Aïssaoua, ces musique sacrées auxquelles on avait consacré tout le colloque du premier festival et dont les actes ont été publiés dans le deuxième numéro de la revue  "Transit"  de Paris-VIII, tandis que le premier numéro avait été consacré aux chants profanes intitulés  Paroles d’Essaouira.
   
 
Le spectateur du rite nocturne de possession, fasciné par ce « spectacle » de transe « habitée », est avant tout sensible au jeu musical de ses animateurs. Il est tenté alors, de conclure que chez les Gnaoua, ce sont les musiciens qui sont les maîtres du jeu. En réalité nous dit Georges Lapassade, ici, comme dans tous les rites de possession, la gestion de la situation est assurée par les prêtresses du culte. Et ici comme ailleurs, les femmes, parce qu’elles sont tenues en marge de la religion des hommes, se sont donné secrètement une autre « religion » : la religion des femmes.
 
    Là encore, afin d’expliquer son intérêt pour les ethnométhodes de guérison par l’induction de transe, on retrouve cette lointaine empreinte de la prime enfance
:
 
 « Ma grand-mère savait tirer les cartes et j’ai été incité par son exemple, lorsque j’avais douze ans, à m’initier à la cartomancie et même à la pratiquer. Cela créait une atmosphère, et je peux ainsi aujourd’hui comprendre assez facilement les croyances des gens, au Brésil et au Maroc, autour des pratiques de la voyance et de la possession. Mon initiation précoce a déterminé mon intérêt persistant pour les pratiques ésotériques. »
      
 Au mois de mai 1986 sous le titre « Voyage au pays de la magie : Talisman et divination à Essaouira », il publie, chez Sindibad, les résultats d’une enquête qu’il avait mené avec Boujamaâ Lakhdar sur la magie: Après l’enquête chez les tolba sur la talismanique et ses sources livresques (les livres jaunes de la magie, élaborés et publiés au moyen âge, inspirés d’une grande tradition occulte, El Bouni et Damyati pour le monde arabo-musulman, au 12ème siècle, et Agrippa d’Aubigné pour le monde occidental, au 16ème siècle) ils ont procédé à une autre enquête sur les traditions orales de divination chez les choufate :
 
« Notre promenade éthnologique à Essaouira à la recherche des pratiques magiques s’est effectuée à plusieurs niveaux et en plusieurs étapes : on a d’abord inventorié quelques liasses de documents de tolba existant au Musée. On a ensuite procédé à une enquête auprès de quelques tolba en exercice auxquels on a demandé de fabriquer des herz et de parler de leurs pratiques. On a enfin rencontré quelques voyantes..Contrairement aux taleb, les voyantes en tant que femmes ne peuvent pas se rattacher aux « textes » ni utiliser l’écriture pour fabriquer des talismans. Les femmes qui fabriquent des objets magiques, kammoussa, ne sont pas appelées voyante mais saharate (sorcières). Les voyantes ne fabriquent pas d’objets magiques. Elle pratique surtout la devination et elles ont un rôle thérapeutique. Elles trouvent souvent leur vocation à travers une maladie (possession) et elles entrent en transe pour faire leur divination. »
 
     Dix ans plus tard, en 1996, la dernière enquête de Georges à Essaouira a porté sur les talaâ,  ces voyantes médiumniques, ces prêtresses des Gnaoua qui pratiquent la divination en état de transe.
  
    Entre Essaouira et Pau, les Pyrénées-Atlantiques et le Haut-Atlas occidental, ces mêmes saveurs sont transversales à l’écriture, à la mort et à la nostalgie des origines
:  
 
«  Tout à l’heure on égorgeait des poulets dans la rue, près de Bab Doukkala. Le sang coulait dans les seaux, il débordait sur le trottoir. Au milieu de la cour intérieure du sanctuaire des poules rouges égorgées baignaient dans le sang. Je ne me suis pas attardé. J’ai regardé juste en passant, je supportais mal ce spectacle. Et soudain, alors que j’écris ces lignes, un souvenir me revient : je suis étendu sur la table de la salle à manger transformée en salle d’opération, j’ai onze ans, je hurle, on recoud des chairs à vif. L’année suivante, on m’opère d’un phimosis, mais cette fois c’est à Pau, dans une clinique. C’est à ce moment-là que j’ai été blessé pour la vie, livré à l’angoisse et à la peur de la mort. Lorsque ma mère est morte, j’ai refusé de la voir, comme l’exige la coutume. J’ai retenu mes larmes pendant l’enterrement ; c’était une journée froide de février, avec un soleil pâle sur la neige. La veille de l’enterrement, je me suis enfermé dans ma chambre, chez ma grand-mère, et j’ai écrit pour ne pas y penser. Après l’enterrement, j’ai marché dans la plaine, dans les salines, au milieu des arbres morts de l’hiver. J’ai marché dans nos champs, j’enfonçais mes souliers dans notre terre noire. Et, là, j’ai pleuré, parce que j’étais seul. »
 
       Cette angoisse du départ, qui préfigure d’une manière symbolique, ce départ pour toujours qu’est la mort, Georges l’a toujours ressenti à chaque fois qu’il devait quitter Essaouira pour se rendre à Paris à la fin de l’été, comme une mort symbolique et une nouvelle naissance : la fin de l’écriture d’été et la naissance d’une nouvelle oeuvre.
   
 C’est en cette période de « transition » et de « transit » que nous envoyons pour publication nos articles sur « la musique comme fait social », « le mouvement folk de Nass El Ghiouane », « l’empire des signes », « les marqueteurs d’Essaouira », ou « le printemps des Regraga ». Il s’agissait de défendre la vitalité de la culture populaire contre la muséification qui la guette. Dans ces articles Georges s’élevait contre ce qu’il appelait la folklorisation  qui est à ses yeux une   muséification de la vie  : Comme dans un musée, on a une espèce d’épouvantail à moineaux à la place d’un être vivant qui portait jadis un costume. De la même manière la musique locale est dévitalisée par sa folklorisation.
 
    Le Musée ethnographique des traditions populaires d’Essaouira, que dirigeait alors feu Boujamaâ Lakhdar était transformé par Georges en un département d’ethnographie et, en même temps, en un lieu de rencontres culturelles intense. Cette hyperactivité intellectuelle, symbolisée par le cliquetis incessant de sa machine à écrire, qui emplissait la voûte du musée du matin au soir, suscitait des admirations envieuses par sa vitalité créatrice, faisait oublier à Georges pour un temps son angoisse native du départ vers cet ailleurs qui peut être la mort. Mais dés que l’heure du départ effectif s’approche, la fébrilité resurgit à nouveau de sa tanière et ressaisit sa personne comme un djinn possesseur de l’écriture
:
 
«Je ne peux rien contre l’angoisse du départ, contre cette souffrance que je traînerai avec moi probablement aussi longtemps que j’écrirai… La nuit sera chaude. Un vent léger secoue les palmiers devant l’hôtel. Mais le grand arbre reste immobile. Seule l’étoile du berger brûle au milieu du ciel. Une musique lointaine troue le silence. L’été va mourir, peut-être cette nuit. Mais je voudrais qu’il s’éternise. Qu’importe les livre si rien ne peut empêcher la mort de l’été. Mes étés sont comptés déjà. Tout ce qui me le rappelle, tous ces signes accroissent ma douleur. Mais le commencement de l’été ramène chaque année l’illusion que la vie recommence… »
 
Lapassade poursuivait :
« La fin de l’été approche. Je pourrai maintenant retourner à Paris, et puis peut-être retourner à Pau et, là, me mettre vraiment au travail. Je repasserai par tous les lieux où j’ai vécu quand j’étais enfant, j’interrogerais Lalie, la sœur de ma mère, elle se souvient de tout, elle aime raconter des histoires. Il suffira ensuite de transcrire – et mon livre sera fait, il se fera tout seul. Ce matin, je n’ai même pas le courage d’aller jusqu’au marché, je n’achèterai pas les légumes pour préparer mon repas de midi…
 Guy, ce soir, va m’aider, comme l’année dernière, à quitter cette ville. Arrive Boujamaa. Il est inquiet, il s’interroge :
 
–         Mais qu’est-ce que tu as fait pendant ces deux jours, personne ne t’a rencontré dans la ville.
–         Rien. J’ai un peu écrit, quelques pages seulement. Et puis j’ai attendu Guy. Demain, nous partirons ensemble.
Maintenant le temps est gris avec, par intermittence, un soleil pâle :
–         Ça sent l’hiver, dit Boujamaa, il est temps de partir.
 
Je suis rentré à l’hôtel tout à l’heure. J’ai mis dans des sacs en papier le camping-gaz, les verres, les assiettes et j’ai tout laissé à Fatima. Elle gardera mes affaires jusqu’à mon retour. J’ai payé ma dernière note d’hôtel. J’ai dédicacé à Kamal un exemplaire de L’essai sur la transe. Je suis allé au café glacier pour le dernier adieu à Saïd. Les oiseaux volent plus vite dans le ciel, comme des nuées de cendre emportées par le vent. Neige blanche des mouettes autour d’un sardinier qui rentre au port. Les contrevents de l’hôtel claquent contre les murs. Les départs me dépriment toujours. Je vais partir. Je vais laisser ici ceux que j’aime. »
 
Quand on s’éloigne d’Essaouira, c’est toujours sous forme de mouette qu’on la retrouve ! Leur envol au crépuscule, leur envol au ras des vagues et au-dessus des mâts, sont la réincarnation des légendes et des mythologies marines , comme le souligne si bien Moubarek Raji, le jeune poète arabophone contemporain de la ville
:
 
« Les mouettes sont des vagues qui prennent leur envol
Et les vagues, des mouettes qui grondent
Quand on brise une vague
Une aile vous pénètre profondément
Et quand on brise une aile
Une vague vous pénètre profondément
Ecoutez les trois mouettes briser leurs oeufs
Comme si la mer surgissait du sable pour la première fois
Avec comme notes musicales : l’éclosion d’œufs de mouettes »
 
     Pour ce poète comme pour le magicien de la terre qu’était Boujamaâ Lakhdar, une mouette n’est pas une mouette, elle est pour l’artiste peintre le symbole même de la ville. Le dernier tableau peint par Boujamaâ Lakhdar, avant sa disparition en 1989, représentait une mouette fantastique portant sur ses ailes les signes et les symboles magiques de la ville. Georges Lapassade était l’une des figures emblématiques de la ville, l’un de ses principaux auteurs, son regard fut un limpide miroir pour la mémoire de la ville. Un de ces oiseaux marins au regard perçant survolant les rivages de pourpre. C’est toujours sous la forme d’une mouette que nous rendent visite nos chers disparus.
 
L’un des enseignements fondamentaux que j’ai reçus de Georges Lapassade, en menant ensemble notre enquête sur  la parole d’Essaouira au début des années 1980, c’est non seulement l’obligation de tenir une sorte de compte-rendu sur les apprentissages de chaque jour, mais surtout la vertu pédagogique du  compte-rendu : au retour de mon pèlerinage chez les Regraga, il venait chaque soir m’écouter ; en lui racontant ce qui s’est passé, je me rendais compte que mon subconscient avait enregistré des faits pertinents à mon insu. Mais sans son écoute attentive, je n’aurais certainement pas produit telle ou telle idée intéressante, comme faire le lien avec la « théorie du don » de Mauss, « l’éternel retour » de Nietzsche, ou « l’observation participante » de Malinowski : on produit autant par soi-même que par l’écoute amicale de l’autre. Comme me le disait si bien mon ami Georges Lapassade : dans ton cerveau et dans le mien, il n’y a que de l’eau ; la véritable étincelle jaillit dans l’interaction entre les deux cerveaux. C’est du dialogue que naît la lumière…J’ai peur qu’avec sa mort ne soit enterrée  la Parole d’Essaouira, qu’il avait su avec talent sortir des limbes de l’oubli.
 
 
Casablanca, le 1 Octobre 2008
 
                                                                Abdelkader MANA
Extrait de « L’aurore me fait signe
Dérives au pays de l’arganier »
Inedit de Abdelkader Mana

——————————————————————————–
[1] Je viens de découvrir une inscription qui atteste que le bastion circulaire de Bab Marrakech a été édifié sur ordre de Moulay Abderrahman Ben Hicham(1822-1859), par le tailleur de pierre, maâlam El Haj Mohamed Derda, en l’an 1262 de l’hégire, soit en 1839. Il est donc bien postérieur à la fondation de la ville.De même la nouvelle Kasbah où se trouve « Dar Anflous » (l’actuelle Dar Souiri), date de 1873. Alors que dans les autres médinas, les gens s’établissent d’abord, puis les habitations sont entourées de remparts, à Essaouira, c’est le processus inverse qui s’est produit. On a commencé par la géométrie, et la démographie a dû se couler dans l’espace inscrit par un plan directeur. C’est la Kasbah qui avait induit la médina : les consuls, les négociants et l’administration avaient besoin d’artisans pour bâtir, de paysans pour les nourrir et de soldats pour les protéger.
 

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Il Nobel di letteratura a Le Clézio, “esploratore dell’umanità”

LETTERATURA
Il Nobel di letteratura a Le Clézio, “esploratore dell’umanità”
Nel romanzo L’africano ( pubblicato in Italia da instar libri nel 2004), J.M.G. Le Clézio  si dice “appartenuto al silenzio, confuso con tutto ciò che non si esprime e nascosto dai nomi e dai corpi degli altri”. Attribuendogli  il premio Nobel di letteratura 2008, l’Accademia svedese ha in qualche modo risposto e salutato uno “scrittore della rottura, dell’avventura poetica e dell’estasi sensuale, l’esploratore dell’umanità al di là  e al di fuori della civilizzazione imperante.”
Il romanziere francese –  ma anche d’altrove –  si recherà il 10 dicembre a Stoccolma per ricevere uno chèque di dieci milioni di corone svedesi ( 1,02 milione di euro).
Naturalmente non si tratta soltanto dell’emergenza di un caso personale e di una meritata “rivincita”. Durante una conferenza stampa nei locali delle edizioni Gallimard, lo scrittore ha espresso, ancora una volta, la sua fede nella letteratura: “Continuare a leggere dei romanzi, è un buon modo d’interrogare il mondo attuale, senza avere risposte troppo schematiche. Lo scrittore non è un filosofo, né un tecnico della parola, ma qualcuno che scrive e che pone delle questioni.”
Jean-Marie Gustave Le Clézio nasce a Nizza nel 1940, da una madre delle isole Mauritius e un  padre britannico  che lo porta in Nigeria e in Cameroun – esperienza evocata nell’Africano . In viaggio da sempre, J.M.G. Le Clézio, come firma i suoi libri,  non può che essere portatore di questioni di “rottura”, profondamente radicate al cuore del suo pensiero, delle sue emozioni e del  suo sentimento, insomma della sua vita intima. Di una intimità “nomade” fin dalla prima infanzia, mai esposta direttamente e della quale peraltro lo scrittore non fa mostra – preferendo volgerla verso un fuori impossibile: "J’ai toujours cru que la littérature c’était comme la mer, ou plutôt comme le vol d’un oiseau au-dessus de la mer, glissant très près des vagues, passant devant le soleil", scriveva nel 1985. 
Forse perché sapere che al mondo, nonostante la durezza dei rapporti sociali, esiste la poesia, e volare sul mare della significazione, fare il surf su cavalloni immensi e passare davanti al sole dovrà loro essere sembrato troppo limpido, i colleghi letterati del  piccolo milieu parigino & de-costruzionista  hanno ironizzato sull “ utopiste Le Clézio”. E il nostro Pietro Citati, il saggista che favoleggia di un mondo infinito, sublime e mortifero, lo accusa di essere “uno scrittore molto mediocre” (“ Non si capisce perché gli accademici di Stoccolma debbano giudicare ‘provinciali’ dei grandi scrittore americani e poi premiare uno scrittore come Le Clézio che aveva cominciato bene ma che poi ha continuato mediocremente”, ha commentato il principe dei critici italiani,  schiumando rabbia e bollando  l’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura  come “una scelta del tutto infelice”).
Non pochi colleghi letterati forse consideravano  J.M.G. Le Clézio un semplicione, un ingenuo, se non un po’ naif. Specialmente quando, opponendosi al degrado nostro e della natura, lo “scrittore filubistiere” difendeva le tribù fagocitate dalla civilizzazione in corso e le nobili balene minacciate di sterminio, insieme al mare e all’immensità di una coscienza che oggi sembra che nessuno abiti più ; oppure, quando nel 1979, in L’Inconnu sur la terre, con un tono lirico che non sempre, anzi raramente, egli si autorizza nelle sue pagine, affermava:"Je veux écrire pour la beauté du monde, pour la pureté du langage. (…) Je veux écrire pour être du côté des animaux et des enfants, du côté de ceux qui voient le monde tel qu’il est, qui connaissent toute sa beauté…".
Non ci può che rallegrare del riconoscimento tributato al discreto, cancellato, anti-mondano, inaudibile JMG Le Clézio : uno dei pochi narratori veri, uno scrittore per il quale l’altrove non mette sul cammino di una perdita di sé ( magari per finire, con Cèline,  nel solito “mare di pus”).

Mentre il mondo, anche nella civiltà letterata, si predispone, forse per gran senso di noia o di sazietà, allo sfogo  della barbarie incombente,   non pochi letterati ( come per esempio M. Houellebecq e Bernard-Henri Levy in Francia,  David Remnick, direttore del "New Yorker", uno dei portavoce dell’intellighenzia chic della sinistra americana, e da noi P. Citati o un certo Mancuso del quotidiano “il Foglio” ) fanno storie per questo Nobel e quasi si torcono per restare a galla.

Meglio tornare sulla terra e il corpo in cui siamo nati. E rileggere L’africano da così lontano, vedere più da vicino il mondo attraverso gli occhi di Le Clézio:  "Guarderò la febbre salire nel cielo del crepuscolo, i lampi rincorrersi silenziosi tra le scaglie grigie delle nuvole aureolate di fuoco. A notte fonda ascolterò i passi del tuono, sempre più vicini, il vento che fa oscillare la mia amaca e soffia sulla fiamma della lampada. Ascolterò la voce di mia madre che conta i secondi dallo schianto del fulmine e ne calcola la distanza moltiplicandoli per trecentotrentatré. E poi il vento della pioggia, gelido, che investe la cima degli alberi con tutta la sua forza, sentirò ogni singolo ramo gemere e scricchiolare, l’aria della stanza riempirsi della polvere sollevata dall’acqua nell’urto con la terra".
Insomma ecco un altrove che ha il coraggio di essere tenero, febbricitante e vero, che non è il nouveau roman, l’estenuante e vacuo gioco degli sperimentalismi intraverbali o la dèrive ( questa idiozia! ); e neanche il mondo di Pietro Citati ( “un mondo stellare dove non esiste colpa, non esiste sesso, non esiste storia, esiste solo una beatitudine infinita”) .  L’infinito? Sì, và, citrullo!  Nel 2003, in Révolutions, lo scrittore ci consegna un altro desiderio: "Etre à la fois ici et ailleurs, appartenir à plusieurs histoires." Appartenere a molte storie, non per fare dell’esotismo, ma per ritrovare – attraverso un lavoro solitario e immenso – il grande abbraccio della vita oltre il foglio bianco: in quel “là fuori” della scrittura che per l’autore, tra l’ altro,  dell’ Extase materielle e di Voyages de l’autre côté resta quell’ “innumerevole esistere” e quell’ “essere vivente” di cui la letteratura non cessa di ricostruire la traccia, ponendo questioni di “rottura” ogni volta inattese e sorprendenti.
Chi vive ? Forse è la vivida fluttuazione delle sensibili parole febbricitanti e ferite di Le Clézio, l’altezza delle sue piccole  estasi terrestri e l’ampiezza dell’irriducibile speranza in una letteratura aperta al mondo, ai tanti mondi possibili, o anche impossibili,  e agli altri viventi, anch’essi feriti, che il Nobel di letteratura ha voluto onorare.
Link
Intervista allo scrittore, il 9 ottobre scorso, invitato di France-inter,
 prima dell’attribuzione del premio Nobel >
 
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Saluti da Marrakech

VILLEGGIATURA
 
Saluti da Marrakech. Spero di ritornare alla fine del mese di Ramadan fresco, abbronzato, rilassato e felice. Ciao.
 
Fnaque berbère :)
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Da  Facebook, “insolites au Maroc”
 
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Il dio dell'ebbrezza

LIBRI
 
IL DIO DELL’EBBREZZA
 
 Il dio dell'ebbrezza. Antologia dei moderni dionisiaci
 
Elémire Zolla, Il dio dell’ebbrezza.
Antologia dei moderni dionisiaci ,
1998, Torino, Einaudi
 
Con scritti di
 
Friedrich Nietzsche, Robert Eisler, Gabriele D’Annunzio, Lev Tolstoj, Sigmund Freud, Nguyen-Te-Duc-Luat, Matgioi, Michail Bulgakov, D. H. Lawrence, Ramón del Valle-Inclán, Walter Benjamin, Jean Cocteau, Federico García Lorca, Antonin Artaud, Henri Michaux, Géza Csáth, M. Ageev, Gerhart Zacharias, Tommaso Landolfi, Aldous Huxley, Carlos Castaneda, Ronald K. Siegel, William S. Burroughs, R. Gordon Wasson, Thomas J. Riedlinger, Gottfried Benn, Ernst Jünger, Sabine Hargous, Janet Siskind, Wolfgang G. Jilek, Herman K. Haeberlin, Peter Gorman, Mark Plotkin, Gus di Zerega, E. Jean Matteson Langdon, Giorgio Samorini, Susana Valadez, Raymond Prince, Gianni De Martino, Viviana Pâques, Francesco Mari, Emilio Marozzi, Elisabetta Bertol
 
   
In un saggio che da solo ha l’ampiezza di un libro e in una personale antologia che raccoglie e ordina per la prima volta una sterminata quantità di testi, sia letterari sia etnografici, Zolla ricompone lo schema segreto di un persistente modello culturale.
Questo libro rende visibile una zona vastissima ma normalmente celata, o al massimo consegnata a banali mitologie trasgressive, della storia e della vita dell’Occidente: la zona, segnata da confini mobili, dove continuamente risorge l’elemento dionisiaco.
Se infatti gli dèi, non escluso Dionisio, il dio dell’ebbrezza, sono stati dichiarati più di una volta ufficialmente defunti, è anche vero che poeti e scrittori, (come anche i ricercatori abituati a osservare e conservare i tesori culturali di genti in angoli sperduti del pianeta che vivono in modo tradizionale), si imbattono spesso in comportamenti e stati di coscienza che sembrano indicare, tra mille insidie, la via di una conoscenza "giusta, pura, luminosa". ( Dalla quarta di copertina)
 
 
 
Indice
La figura mitica di Dioniso dall’antichità a oggi di Elémire Zolla. Friedrich Nietzsche, Il lamento di Arianna. Robert Eisler, Idee misteriche orfico-dionisiache nell’antichità cristiana. Gabriele D’Annunzio, La spica; Sigmund Freud, Sulla coca. Sigmund Freud, Sugli effetti generali della cocaina. Nguyen-Te-Duc-Luat, Fisica e psichica dell’oppio. Matgioi, La scienza razionale. Michail Bulgakov, Morfina. D. H. Lawrence, La danza hopi del serpente. Ramón del Valle-Inclán, L’anello di Gige. Walter Benjamin, Sull’hascisc. Jean Cocteau, L’oppio. Federico García Lorca, Il duende. Antonin Artaud, Una Razza-Principio. Henri Michaux, Miserabile miracolo. Gèza Csáth, Oppio. M. Ageev, Romanzo con cocaina. Gerhart Zacharias, Una strana epifania di Dioniso. Tommaso Landofli, La pietra lunare. Aldous Huxley, Le porte della percezione. Aldous Huxley, L’isola. Carlos Castaneda, A scuola dallo stregone. Carlos Castaneda, Una realtà separata. Ronald K. Siegel, La farmacia privata di Castaneda. William Burroughs, Il pasto nudo. R. Gordon Wasson, La ricerca di Persefone: gli enteogeni e le origini della religione. Thomas J. Riedlinger, Elementi pentecostali nei resoconti di R. G. Wasson sui veladas mazatechi. Gottfried Benn, Oh notte-. Ernst Jünger, Avvicinamenti. Sabine Hargous, I riti magici. Kenneth M. Kensinger, Banisteriopsis, Uso presso i Cashinahua. Janet Siskind, Visioni e cure presso gli Sharanahua. Wolfgang G. Jilek, Terapia indiana. Il cerimoniale sciamanico contemporaneo nel Pacifico nord-occidentale. Herman K. Haeberlin, I Salish del Puget Sound. Peter Gorman, I popoli del giaguaro. Mark Plotkin, Sangue di luna, seme di sole. Gus di Zerega, Un nuovo cavallo per gli spiriti. E. Jean Matteson Langdon, Yagé e dau: il potere sciamanico nella religione Siona. E. Jean Matteson Langdon, Precisazioni sul dau. Giorgio Samorini, Adamo, Eva e l’iboga. Giorgio Samorini, Gli allucinogeni nel mito. Susana Valadez, La via del compimento presso gli Huichole. Raymond Prince, Sciamani ed endorfine: ipotesi per una sintesi. Gianni De Martino, I profumi della notte Ghnaua. Viviana Pâques, Che cos’è la terra per gli Ghnaua? Emilio Marozzi, Francesco Mari, Elisabetta Bertol, Il culto Bwiti e la Tabernanthe iboga.
 
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11 Settembre – Il sacrificio dell'America

11 Settembre

IL SACRIFICIO DELL’ AMERICA

 

Gli attentati dei terroristi di Al Qaeda dell’ 11 settembre 2001 che fecero strage a New York e colpirono un pezzo di Pentagono miravano a ferire a morte il cuore dell’Occidente e del mondo democratico, nel nome di un islàm non usato al servizio delle creature ma come arma politica e strumento di potere. "Ecco l’America colpita da Allah Onnipotente in uno dei suoi organi vitali tanto da distruggere i suoi più grandi edifici. Sia grazia e gratitudine al Dio Allah…". Così dal Qatar, attraverso la televisione Al Jazeera , parlava o meglio sentenziava Bin Laden, con il dito puntato verso il mondo colmo di orrore dopo i perfidi  attacchi suicidi dell’11 settembre.

Mentre gli Stati Uniti, invece di precipitare nel marasma borderline e di offrire ai terroristi un Oscar per la migliore sceneggiatura, hanno reagito rafforzando la coesione interna e distruggendo il regime dei Talebani in Afganistan e quello di Saddam Hussein in Iraq, l’Europa “pacifista”, errante, sognante e disponibile, stenta ad accettare la triste realtà dell’esistenza di un terrorismo di matrice islamista, oggi ancora attivo e con complici e simpatizzanti in tutto il mondo – come hanno tra l’altro dimostrato anche le stragi di Londra e di Madrid.  Molti Europei non vogliono sapere cosa li aspetta con l’islam politico né ciò che questo sistema totalitario sta apertamente facendo alle sue donne e ai suoi oppositori, compresi i musulmani che non si sottomettono ai “barbuti” e alla versione jihadista dell’islàm, o quello che tenterà di fare alla nostre società libere in futuro.

 Link

 Video dedicato AGLI EROI AMERICANI  

Very moving flash film of our Heroes in uniform

> http://www.clermontyellow.accountsupport.com/flash/UntilThen.swf

 

P.s. Con le parole di Freud, in nota a ‘Il disagio della civiltà’ : “Che immane ostacolo alla civiltà dev’essere la tendenza aggressiva, se la difesa contro di essa può rendere tanto infelici quanto la sua stessa esistenza ! ”.  Freud lo ha scritto nel 1929, durante l’ascesa sfolgorante, quindi non vista, dell’aggressivo regime nazista. Quella di Freud è un’annotazione a proposito del precetto “ama il prossimo come te stesso”. Dopo aver riconosciuto la funzione civilizzatrice di tale precetto, osserva : “ Eppure, chi nella presente civiltà s’attiene a tale precetto si mette solo in svantaggio rispetto a chi non se ne cura. Che immane ostacolo alla civiltà dev’essere la tendenza aggressiva, se la difesa contro di essa può rendere tanto infelici quanto la sua stessa esistenza”.

 

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Lch – L'origine della vita

ARTE & SCIENZA

L’ ORIGINE DELLA VITA

salvador dali museum

 

Mancano due giorni al via dell’esperimento Lhc nel Cern di Ginevra, il laboratorio europeo per la ricerca nucleare. Il 10 settembre prossimo  verrà acceso l’accelleratore di particelle che cercherà di riprodurre i primi istanti dell’universo, 20 milionesimi di secondo dopo il «big bang», e tentare di dare una risposta sull’origine dell’universo. Uno degli esperimenti piu’ importanti della storia, secondo i ricercatori del Cern.

Link

Lhc, l’origine della vita
Il Tempo 

 

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