Georges Lapassade in Marocco ( 2 )

GEORGES IN MAROCCO ( 2 )
Tracce di un movimento culturale ( 1969- 2008)
Nel frattempo, in quell’estate del 1969, Georges era venuto in Marocco, in paese berbero,  per vedere un amico, Julian Beck, il fondatore con Judith Malina del Living Theater. Si conoscevano da tempo, si erano poi incontrati a Grenade e Beck gli aveva proposto di raggiungerlo in macchina a Essaouira dove doveva passare l’estate con parte del suo gruppo in piena crisi (“ La Cultura Borghese”, aveva proclamato Beck tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi dei Sessanta, “ è il nostro Palazzo dell’Oppressione. Evadere. Arte come azione! ”. E ora, nell’estate del 1969, si lamentava dicendo a Georges e a chiunque volesse ascoltarlo: “Siamo diventati troppo famosi”. Lo diceva mentre accarezzava un gatto sulle ginocchia a casa di Murad Ottmani, un giovane intellettuale del posto. Da qualche parte, in cantina, debbo avere  una sua foto di quel periodo…). 
Essaouira, l’ex Mogador, l’ex “porto di Timbuctù”, era una piccola città diventata marginale dopo la fine dei commerci transahariani e la costruzione del porto artificiale di Casablanca. Era  calma, tranquilla, sognante. Di notte, nei vicoli della medina spazzati dal vento, non si vedevano altro che gatti che rovistavano fra mucchi di scorze di cocomero e teste di sardine. Vivevo a Essaouira da due anni in una casa in Rue Youssef ben Tachfine presa in affitto da Lalla Sadia.
 Erano due stanze in alto, sulla terrazza bianca di calce, sotto un cielo di panni stesi ad asciugare e il sovrastante minareto, tozzo, quadrangolare. Cinque volte al giorno il muezzin prima tossiva un po’, poi gracchiava da un altoparlante l’invito alla preghiera, seguito dall’abbaiare dei cani del quartiere. In sincronia, dalla campagna circostante, giungevano gli echi degli altri minareti fra palme sbilenche in lontananza. E il cielo era scipito e blu, come forse sono tutti i cieli in cui vige una religione di Stato. Al piano di sotto ( la casa era su tre piani, oggi c’è l’ "Hotel Maroc") c’era il bordello di Sadia, animato dalle danzatrici dette skirat e frequentato solo di notte dai notabili del paese e anche dal muezzin che potevo scorgere dalla mia terrazza rasentare i muri con molta circospezione, il cappuccio della gellaba calato sugli occhi e in mano una bottiglia di vino accuratamente avvolta nella carta di giornale. Una volta vidi anche il commissario di polizia, quello che doveva rinnovarmi il permesso di soggiorno, pizzicare il grosso sedere di Sadia che quando usciva di casa indossava l’haik bianco e le si intravedevano i denti d’oro in trasparenza attraverso il velo. Quando Martine, la mia ragazza di allora mi lasciò per mettersi con un hippie, Sadia venne a trovarmi su in terrazza e disse: “ Mal au coeur ? Male al cuore ?”. Allora le donne non portavano il velo, solo le prostitute si velavano, e chi non rispettava il digiuno del ramadan non veniva perseguitato, come avviene oggi al seguito della diffusione dell’islam waabita, un islam rigido e puritano, molto diverso dall’islam marabutico del Marocco tradizionale.
Era il periodo hippies, avevo ventidue anni e  a Milano nel 1967 avevo partecipato alla redazione di “Mondo Beat” e mi ero beccato un foglio di via durante l’irruzione della polizia al campeggio di via Ripamonti, un tentativo di comune urbana autogestita battezzata “Nuova Barbonia” dal “Corriere della Sera” e disinfettata con molto DDT dal S.I.D. ( il Servizio Immondizie Domestiche del Comune di Milano). Arrivato a Essaouira nel novembre del 1967, tutto quello che allora m’interessava era restare fuori dai coglioni di tutti e – nell’ordine – scrivere, fumare il kif, fare l’amore e praticare il surf sui cavalloni immensi dell’Atlantico, un mare alto, grigio, già africano, che i ragazzi chiamavano Taghart.
Chi non avrebbe voluto fare come noi? I ragazzi raccontavano che Sadia non portava niente sotto, e gli intellettuali del posto dicevano che Georges era contro il Progresso perché s’interessava dei “marginali”, non gli piaceva la musica arabo-andalusa ma quella dei “negri” ed era pure “avaro” perché non comprava mai niente nel suk e invece di andare al ristorante dell’" Hotel des Iles" andava a mangiare l’harira, una zuppa di ceci e  vermicelli, resa acidula dal pomodoro, profumata di coriandolo e molto piccante  , al quartiere di Bab Doukkalà  dove accanto alle pompe di benzina sostavano le corriere polverose della CTM, un posto frequentato solo da viaggiatori e dalla gente di bassa classe, gli “zouvfris”: gli scioperati, i delinquenti, i neri. Una volta mi dissero che il nuovo arrivato, Georges Lapassade, era un vecchio monsieur che si vestiva come un giovane, con i pantaloni a zampa d’elefante. Lo si vedeva fermare per strada, nei vicoli della medina, chiunque incontrasse, chiedendo loro a gran voce l’indirizzo della zaouia dei Ghnaua e se conoscessero questo o quel maalem, maestro delle cerimonie, come Boubker, per esempio: “ Sapete dirmi dove posso vedere il maalem Boubker… BOUBKER, vi ho detto!”. In genere i ragazzi dei vicoli rispondevano svogliatamente: “M’moumtà!” ( “Più in là”) e gli hippies ridevano, strafatti com’erano dal vento, dall’amore e dal kif, e talvolta lo invitavano a prendere un tè alla menta a casa loro, in stanze dai pavimenti cosparsi di sacchi a pelo, bucce d’arancia e mozziconi di candela .
Gli hippies della prima ondata non erano ancora numerosi, venivano al fresco di Essaouira in estate, lasciando quella pentola rovente di Marrakech. Inizialmente guardati con sospetto dai locali ( correvano voci che gli hippies mangiassero i gatti ), poi si erano bene o male  integrati con la popolazione e affittavano case ornando i muri con poster di Shiva e di Visnù o dipingendoli con affreschi psichedelici al fosfospruzzo. Quel mese d’agosto del 1969 era sbarcato a Essaouira anche Jimi Hendrix, proveniente dal Canada, aveva alloggiato all’"Hotel des Iles" e ripreso il volo dopo un paio di giorni, il 5 o il 6 agosto per partecipare a Woodstok. Ebbe il tempo di conoscere Hassan, detto “ “the king of shilom”, un giovane artigiano di marqueterie, adepto Ghnaua e suonatore di guembrì, che aveva il migliore ashish di Essaouira. Hendrix ebbe  appena il tempo di conoscere anche Julian Beck e Georges Lapassade. Immaginatevi la scena mentre si passano un joint o un sebsì, una pipetta di kif a casa di Paco, un giovane suonatore Ghnaoua. Ho descritto la scena in Marocco. Una guida diversa per viaggiare differente ( uscito a Roma per Arcana nel 1975, insieme a M’Hashish & Cento Cammelli nel cortile di Paul Bowles e Mohamed M’Rabet, che in quel periodo vivevano a Tangeri ). “ Mura bianche. Stuoie di rafia per sedersi a terra e candele accese. Beck rifiuta la pipa tesagli dal sociologo francese Georges Lapassade. ‘ Non fa niente Julian, puoi passarla a Jim ?’. E così di seguito, si fa il giro. Paco prende il suo guembrì, una specie di chitarra a tre corda con sul manico dei sistri tintinnanti, e fa cenno ai suonatori di qerqaba, dei crotali di ferro. Cerca di condurci così fuori dal tempo… Un’aura magica si forma. Il tempo cambia e cambia anche lo spazio, che sembra come prodotto da una sottile ascensione…”. Paco diceva di non credere ai ginn, che i “veri” ginn o m’louk sono il potere, e sarà all’origine del gruppo pop marocchino “Nass el Giwane”.
Quando Georges arrivò a Essaouira fu il “tornado”. Niente vacanze, finite le vacanze. Ci mise tutti al lavoro. Chi a cercare contatti con i maalem, chi a registrare le musiche, io dovevo sbobinare e trascrivere i canti con l’aiuto di Magid Abdeslem: “Oh oh Sidi Bouderbella / Liberaci signore Bouderbellà”. Bouderbellà era un m’louk, una specie di ginn che quando possedeva gli adepti, questi dovevano vestirsi con una tunica composta di pezzi di stoffa di vari colori, e munirsi di un bastone e di una borsa di pane secco. Bouderbellà era un sufi vagabondo, simile ad Arlecchino. Georges aveva scoperto l’esistenza dei Ghnaua, una confraternita di neri che praticava la transe e i riti di possessione che lui aveva già incominciato a studiare in Tunisia, poi in Senegal con l’équipe del dottor Collomb e Michel Leiris, con la differenza, diceva, che a Tunisi questa cultura era disprezzata, mentre a Essaouira era al centro della cultura popolare.
Nel 1969 uscì il celebre articolo di Lapassade su “Lamalif” intitolato “Essaouira, ville à vendre”. Era la scritta lasciata su un pannello all’ingresso della città dai giovani ebrei che lasciavano Essaouira con le loro famiglie, svendendo i loro averi e le loro case del mellah,  per raggiungere Israele o il Canada, dopo la guerra dei sei giorni. Ed era anche l’emblema di un porto una volta fiorente e ora in piena decadenza, gremito di giovani disoccupati. Senza nient’altro da fare che lo struscio avanti e indietro come cammelli sulla spiaggia deserta, suonare tamburelli, guembrì e qarqaba per entrare in transe e dimenticare la miseria, oppure sedere, senza consumare, ai tavoli dei caffè mori, proibiti alle donne e ai veicoli, ascoltando il vento che soffiava da sotto gli usci e sognando un mondo in cui la vita potesse essere diversa. Quando nei caffè mori qualcuno annunciava l’arrivo di  una rafle della polizia, tutti nascondevano le pipette e il kif dentro i calzini. ( continua…)
Les années Hippies au Maroc  (1) – video Arté
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Georges Lapassade in Marocco ( 3 )

GEORGES IN MAROCCO ( 3 )
Tracce di un movimento culturale ( 1969- 2008)
Il primo festival musical d’Essaouira ebbe luogo alla fine dell’estate del 1980 e Georges partecipò attivamente alla sua organizzazione e al colloquio sulla musica popolare. Nel 1982, creò con Lakhdar la rivista "Transit", nella quale vennero pubblicati gli atti del Colloquio musicale del primo festival e poi, in un secondo numero, edito all’Università di Parigi 8, i risulati dell’inchiesta del 1981. Altre inchieste etnografiche seguirono, tra le quali quella di Abdelkader Mana presso i Regraga della regione di Essaouira. Con la morte prematura di Lakhdar, nel 1989, che nel frattempo era diventato Direttore del Museo di arti popolari, il rapporto privilegiato che aveva potuto stabilire con la regione di Essaouira sarebbe finito se Frédéric Damgaard non gli avesse aperto la sua galleria.
Fu solo nel 1975, che, grazie a e ad alcuni suoi studenti, Georges potè assistere a una cerimonia ghnaua completa. Il rituale si compone infatti di due parti: la prima musicale, accessibile a tutti, la seconda, dopo l’incensazione dello spazio rituale, con vere e proprie possessioni terapeutiche. A impedire l’ingresso era il fatto che in Marocco, a differenza della Tunisia laica di Bourghiba, le moschee sono proibite ai non-musulmani. Ora, poiché il rito ghnaua, che contiene elementi africani e marabutici del sufismo popolare, ha a che fare con l’islam, c’erano non poche difficoltà per entrare in una zaouia ( santuario ) o a casa dei musulmani che praticavano il rituale per motivi terapeutici. Anche l’ostacolo etnico in etnografia e altrove fu oggetto delle indagini di Georges Lapassade. Specialmente dopo la prima guerra del Golfo, e poi con l’11 settembre, quando la tanto celebrata “convivialità” del Marocco fu messa a dura prova dall’irruzione sulla scena mondiale del terrorismo che si proclamava, a gran voce, di matrice islamica.
Nell’estate del 1975 Georges era venuto a Essaouira per un’inchiesta alla quale, oltre ad Abdarrani Maghnia, Hussein Miloudi, Abderrhamane Kirrouj e Boujemaâ Lakhdar, partecipavano anche alcuni italiani: il sindacalista milanese della CISL Marco Tamborini e due psicologhe fresche di laurea: Mariella Seminara e Rosamaria Vitale. Incontrata per la prima volta con Georges al Cafè de France, Rosamaria divenne  mia moglie nel 1976, quando tornai a Milano dopo circa dieci anni di Marocco e ci stabilimmo in via Trivulzio con i due figli avuti nel frattempo, Karim e Gianluca. Georges veniva a trovarci, i ragazzi lo chiamavano zio Georges. Aveva molte famiglie, la sua famiglia erano gli amici…
Da allora, dalla scoperta di questo piccolo porto nell’estate del 1969, fino a quando la malattia non glielo ha impedito, Georges tornava ogni anno a Essaouira e nella regione, contribuendo al riconoscimento di un patrimonio culturale ormai diventato una risorsa, anche turistica, della regione. Ormai la celebrità dei Ghnaua, sia pure folklorizzati, è tale, che tutti conoscono Essaouira. I testi di Georges Lapassade sul Marocco dal 1969 al 1998 sono stati raccolti in un libro intitolato Regards sur Essaouira ( Marrakech, Traces du présent, 2000). Vi hanno contribuito Jean-Francois Robinet e Frédéric Damgaard, e per il loro lavoro d’archivio e il loro contributo Abdelkader Mana e Abdelkabir Namir, ricercatori marocchini iniziati da Lapassade ai metodi etnografici di ricerca in scienze dell’educazione e scienze sociali. L’ultimo libro sulla cultura di Essaouira , un diario sulle tracce della confraternita dei Regraga, D’un marabout l’autre (Atlanta Transhumances, Biarritz, 2000, fotografie di Frédéric Damgaard),  gli è valsa una lettere di ringraziamento di S.M. Mohamed VI. “ Quest’opera – scrive il re del Marocco a Georges Lapassade – oltrepassa il quadro di un semplice diario etnografico per iscriversi in un’analisi profonda del fatto sociale e religioso di Essaouira”. E aggiunge: “ La vostra presenza sul terreno, e l’indubitabile amicizia che vi anima nei confronti del Marocco e in particolare di Essaouira, sono altrettanti elementi che hanno donato al vostro lavoro tutta la sua forza e quintessenza”. Caro Georges Lapassade, che volevi essere accolto e ci accoglievi come voleva il cuore. Chissà cosa avrai pensato di questa buona parola che suona più che come un semplice riconoscimento ufficiale come una specie di riparazione per tutto quello che l’istituzione ti ha fatto passare. Eccoti finalmente tornato a casa, sano e salvo. Senz’altro, “la buona parola reale” ( come osserva Namir ) avrà confortato il cuore di Georges Lapassade, che la malattia, alla fine della sua lunga carriera, impediva di ritornare in Marocco e a Essaouira che ha tanto amato, alla ricerca di una fraternità che sembrava perduta.
 
Qualche riferimento bibliografico
Benachir, Bouazza, Négritudes du Maroc et du Maghreb. Servitude, cultures à possession et transthérapie, préface de G. Lapassade,  L’Harmattan Paris 2001.
Abdelkader, Mana, Les Regraga, Eddif Maroc, Casablanca 1998.
Lapassade, Georges, , « Essaouira, ville à vendre », in Lamalif, n° 33, Casablanca 1969.
Lapassade, Georges, Gens de l’ombre, Transes et Possessions, Anthropos, Paris 1982
Lapassade, Georges, L’ethnosociologie, Paris: Méridiens-Klincksieck,1993.
Lapassade, Georges, , « Notes sur l’histoire de Mogador », in Traces du Présent, n° 2-3, Marrakech 1994
Lapassade, Georges, , « Les Gnaoua d’Essaouira, thérapeutes de la différence », in Africultures, Paris : L’Harmattan, octobre1998.
Lapassade, Georges, Sabba negro, Moizzi, Milano 1978
Lapassade, Georges, Dallo sciamano al raver. Saggio sulla transe, Urra-Apogeo, 1997/2008.
 Nella foto: Georges Lapassade e Gianni De Martino, Essaouira 1994 ( foto di Rachid Boufthi)
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Addio a Georges Lapassade

ADDIO A GEORGES LAPASSADE

 

   "Se l’uomo vuole essere soggetto, attore cosciente della sua storia deve analizzare le istituzioni dalle quali dipende, per analizzare le istituzioni che lo attraversano e trovare nell’azione di gruppo una via d’uscita all’atomizzazione burocratica della quale è vittima" (G.Lapassade).

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 Nato il 10 maggio 1924 ad Arbus, un piccolo villaggio nei Pirenei, nel sud della Francia, è morto oggi a Parigi Georges Lapassade. Professore emerito di Etnografia e Scienze dell’Educazione presso l’Università di Parigi VIII, era considerato con René Lourau uno dei padri dell’analisi istituzionale. Autore di numerose opere sugli stati modificati di coscienza, nella sua lunga carriera si è occupato delle culture nordafricane e afroamericane, con particolare interesse per i temi della ‘transe’. Il suo lavoro era caratterizzato dall’implicazione personale nei gruppi, le organizzazioni e le istituzioni che egli “misurava” come l’agrimensore di Kafka nel ‘Castello’, per farne emergere la verità e i segreti, e dall’ idea che l’educazione si radichi nel corpo, nella sensibilità, nell’immaginario, oltre che nell’intelletto, per affrontare la comprensione scientifica di una complessità in movimento..
 
E’ un procedere che si richiama all’analisi istituzionale (il movimento della psicosociologia francese nato all’Università di Parigi-Vincennes), allo studio degli etnometodi di Harold Garfinkel e alla lotta politica per  una burocrazia aperta e un reale più largo.Questo procedere ha origine nel suo primo libro L’Entrée dans la vie, saggio sull’incompiutezza dell’uomo apparso nel 1963, tradotto in Italia nel 1971 da Sergio de La Pierre per Guaraldi con il titolo Il mito dell’adulto. In questo senso va compreso l’interesse di Lapassade per fenomeni di passaggio e apparentemente marginali come la transe, la “dissociazione adolescente”, la cosiddetta devianza e le sottoculture giovanili. Il mese scorso le edizioni Urra-Apogeo hanno ripubblicano un suo fondamentale testo Dallo sciamano al raver uscito in prima edizione presso Feltrinelli nel 1980. Come ricorda un suo studente, il musicista Salvatore Panu: “ Amava, cantava e voleva sentire cantare ‘le temps des cerises’, il canto della Comune di Parigi”, una delle più belle pagine della canzone francese. Un abbraccio a tutti quelli che lo conoscevano personalmente.
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— Le temps des cerises
Bobbejaan & Geike (hooverphonic)
 
Quand nous chanterons le temps des cerises
Et gai rossignol et merle moqueur
Seront tous en fête …
Les belles auront la folie en tête
Et les amoureux du soleil au cœur
Quand nous chanterons le temps des cerises
Sifflera bien mieux le merle moqueur
 
Mais il est bien court le temps des cerises
Où l’on s’en va deux cueillir en rêvant
Des pendants d’oreille …
Cerises d’amour aux robes pareilles
Tombant sur la feuille en gouttes de sang
Mais il est bien court le temps des cerises
Pendants de corail qu’on cueille en rêvant
 
Quand vous en serez au temps des cerises
Si vous avez peur des chagrins d’amour
Evitez les belles …
Moi qui ne crains pas les peines cruelles
Je ne vivrai point sans souffrir un jour
Quand vous en serez au temps des cerises
Vous aurez aussi vos peines d’amour
 
J’aimerai toujours le temps des cerises
C’est de ce temps-là que je garde au cœur
Une plaie ouverte …
Et Dame Fortune, en m’étant offerte
Ne pourra jamais fermer ma douleur
J’aimerai toujours le temps des cerises
Et le souvenir que je garde au cœur
 
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L'Iran non vuole fermarsi

FLAGELLI
L’IRAN NON VUOLE FERMARSI

NESSUN PASSO INDIETRO SU PROGRAMMA ATOMICO
L’Iran prova a mostrare i "muscoli"
                     
Ahmadinejad: «I nemici non riusciranno a fermare il nostro programma».
 
"Se anche riuscissero a isolarci, l’Iran diventerà ancora più determinato a continuare la sua strada verso il nucleare – afferma  il Presidente iraniano -. Quelle potenze tracontanti debbono sapere che le minacce e le pressioni non le metteranno al riparo da noi».
Khamenei: «Avanti sul nucleare»
Il successore di Khomeini: «La comunità internazionale non ci fermerà»
Nell’ultimo incontro per i negoziati, tenutosi il 19 luglio a Ginevra, l’Iran aveva chiesto due settimane di tempo per esaminare le proposte del 5+1 (i paesi con seggio permanente in Consiglio di Sicurezza Onu più la Germania). Si trattava di incentivi per il nucleare civile in cambio di uno stop al programma di arricchimento dell’uranio.
Proprio mentre sfida la comunità internazionale, il regime khomeinista fomenta la tipica sindrome prebellica della madrepatria « accerchiata e umiliata dal potente e tracotante nemico esterno»; e la diplomazia, non solo quella europea, sembra piuttosto nervosa: non riesce a fermare la corsa scandalosa alla bomba atomica dei mullah e degli hezbollah.
Loro sanno quello che ( direttamente o indirettamente ) vogliono fare: cancellare dalla carta della storia i vicini di casa. E’ un programma “logico”, fondato sulla volontà dell’Onnipotente, ed è un forte desiderio, una vera e propria passione. Le democrazie invece credono nel “dialogo” e nella politica dell’appeasament, non all’esistenza dei  “nemici”, dell’ “odio islamista” o dell’apocalisse.
 Le democrazie credono anche, o credono di sapere, che nel rifiuto della complessità si annida la tirannia.
Intanto mentre in democrazia si discute, ci si interroga e si bisbiglia di affari, di petrolio, di sigarette e di “minaccia nucleare”, il regime dei  devoti all’Onnipotente guadagna tempo. E il “punto critico” si avvicina pericolosamente, rendendo purtroppo l’ipotesi di uno scontro militare, forse anche nucleare, sempre più concreta.
 
Link
 
>La bomba atomica iraniana destabilizzerà il Medio Oriente

“Panorama” 1 lug 2008 “ Sotto la forza del suo ombrello atomico, l’Iran potrà alimentare il terrorismo in Iraq, in Libano, a Gaza, negli Stati del Golfo Persico”.

P.s. Certo, abbiamo comunque la necessità, per vivere sufficientemente bene, di coltivare illusioni di possibile appeasament e sogni di pace. Il risveglio potrebbe anche essere brusco e provocare disillusioni tremende. Trattandosi di minacce “irrazionali”, pare purtroppo molto difficile, se non impossibile, che chi si proclama a gran voce servo dell’Onnipotente possa moderarsi da solo e agire «in modo responsabile costruttivo». E’ più probabile che una volta raggiunto il punto critico del suo “programma”, il regime khomeinista  invochi, ancora una volta, la volontà divina dell’Invisibile e salti in aria a corto circuito, con forti cariche simboliche.

Le guerre che non cessano di sconvolgere gli osservatori, scoppiano da sempre o troppo presto o troppo tardi…in modo inevitabile e imprevenibile, per motivi non sempre “razionali”.
 

Lettura consigliata
Camus, La Peste
"sì, Castel", egli disse, "è appena credibile, ma pare proprio che sia la peste".
Alzatosi, Castel si diresse alla porta.
"Lei sa cosa ci risponderanno", disse il vecchio dottore. "È scomparsa da anni dai climi temperati’ " "Cosa significa sparire?" rispose Rieux alzando le spalle.
Sì. E ricordi: anche a Parigi, quasi vent’anni or sono".
"Bene. Speriamo che oggi non sia più grave d’allora. Ma è davvero incredibile".
La parola "peste" era stata pronunciata per la prima volta. A questo punto del racconto, che lascia Bernard Rieux dietro la sua finestra, si concederà al narratore di giustificare l’incertezza e la meraviglia del dottore: la sua reazione, infatti, con qualche sfumatura, fu la stessa nella maggior parte dei nostri concittadini. I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati. Il dottor Rieux era impreparato, come Io erano i nostri concittadini, e in tal modo vanno intese le sue esitazioni. In tal modo va inteso anche com’egli sia stato diviso tra l’inquietudine e la speranza.
Quando scoppia una guerra, la gente dice: "Non durerà, è cosa troppo stupida". E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare. La stupidaggine insiste sempre, ce se n’accorgerebbe se non si pensasse sempre a se stessi. I nostri concittadini, al riguardo, erano come tutti quanti, pensavano a se stessi. In altre parole, erano degli umanisti: non credevano ai flagelli.
 Il flagello non è commisurato all’uomo, ci si dice quindi che il flagello è irreale, è un brutto sogno che passerà. Ma non passa sempre, e di cattivo sogno in cattivo sogno sono gli uomini che passano, e gli umanisti, in primo luogo, in quanto non hanno preso le loro precauzioni.
I nostri concittadini non erano più colpevoli d’altri, dimenticavano di essere modesti, ecco tutto, e pensavano che tutto era ancora possibile per loro, il che supponeva impossibili i flagelli. Continuavano a concludere affari e a preparare viaggi, avevano delle opinioni. Come avrebbero pensato alla peste, che sopprime il futuro, i mutamenti di luogo e le discussioni? Essi si credevano liberi, e nessuno sarà mai libero sino a tanto che ci saranno i flagelli.”
 
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Questi fantasmi

QUESTI  FANTASMI
“ MA NON VIENI ? CHE FAI ?”
 
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"j’ai subi un singulier avertissement, j’ai senti passer sur moi le vent de l’aile de l’imbécillité… 
Baudelaire, Journaux intimes, 23 gennaio 1862
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Forse è solo un fantasma. O, come in Herzog di Saul Bellow, l’ombra di un soggetto “morto e stramorto”, senza più alcun messaggio per nessuno, alcun messaggio d’altrove ?
“Ma non vieni ? Che fai? “ disse Madelaine.
Forse non era ancora completamente sveglio. Herzog per un momento s’era fermato vicino al negozio di pesce, attirato dall’odore.
 [] Fermandosi un attimo sulla soglia metallica del montacarichi, Moses avvertì attraverso le suole sottili il disegno a rilievo dell’acciaio; come il Braille. Ma non scoprì nessun messaggio. Sembrava che i pesci, nel ghiaccio bianco, macinato, spumoso, si fossero fermati all’improvviso, nell’atteggiamento di quand’erano vivi.
 [] “Non posso mica aspettare te, Moses” disse Madelaine, perentoria, parlandogli da sopra la spalla.
Entrarono nel caffè e si sedettero al tavolo di formica gialla.
“ Che stavi facendo, a perdere il tempo a questo modo?”
“Be’, sai, mia madre veniva dai Baltici. Il pesce le piaceva moltissimo.”
Ma Madelaine non aveva nessuna voglia d’interessarsi di mamma Herzog, morta da vent’anni, per quanto madrediretta potesse essere l’anima nostalgica di quel signore. Moses, riflettendo, si rimproverò. Lui, per Madelaine, era già un tipo paterno- non poteva pretendere che lei prendesse in considerazione anche sua madre. Era una persona morta e stramorta, una di quelle che non possono fare più nessun effetto sulla nuova generazione. ( Saul Bellow, Herzog, trad. di Letizia Ciotti Miller, RCS Quotidiani S.p.A., Milano, 2007, pp. 166-167).
 
“ Evidentemente” –  commenta il compianto Elvio Fachinelli ( nella Mente estatica, Adelphi, 1989, p.71, citando le pp. 150-151 della prima edizione feltrinelliana di Herzog del 1971) – “ è la madre viva nel protagonista del romanzo, Moses Herzog, che si ferma sulla soglia del montacarichi ed è colpita dal negozio del pesce – insieme al bambino Herzog. Per ‘un attimo’: è un buco di tempo che rispetto a quello quotidiano appare come dormiveglia, contrattempo, pura perdita. [] Il messaggio è nell’intensità di sensazioni che precipitano un ricordo. Di chi ? Della madre e del bambino Herzog ? Un soggetto – misto, confuso ? ”
Nel fuori tempo dell’estasi, in un intervallo dove non c’è dove e “le acque si confondono”, le percezioni, le emozioni e i sentimenti diventano densi, agglutinanti – com’è forse la memoria di tutti gli esseri incompiuti. Tuttavia, per quanto l’emozione di una tale piccola esperienza estatica possa apparire ad altri colpevole, una nostalgia colpevole, o perlomeno ridicola, il fuori tempo dell’estasi “nascostamente vive e non si lascia eliminare”.
L’Angelo Custode ? La situazione comune a molti ciechi illuminati, oggi come ieri, è l’impossibilità di essere  soli al mondo: c’è sempre qualcuno che ha per voi un messaggio inaudito e vi conduce per la manina.
 
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La pantera profumata

 POESIA
LA PANTERA PROFUMATA
Non sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili (Rm 8,26). 
Immagino che al momento di congedarsi il giovane ricco ( v. il post qui sotto) si sia ritrovato in uno strano vuoto. Non proprio un vuoto nichilista o nient’altro che un buco nella lingua, ma un vuoto come fresca traccia… l’odore e il segno del passaggio di un cacciatore e della preda…
L’amore non è un idillio, l’assenza è infinita, e il desiderio non è una cosa semplice. Forse il giovane sente, come un poeta o un innamorato, una continua e forte nostalgia di te.
Nel suo parlare umano, quasi delirante, oggi parla di te non più come di un maestro “buono”, se non buonista, ma come della “pantera profumata” di certe allegorie del Cristo che figurano nei bestiari medievali ( Physiologus e bestiario). E ti paragona alla poesia : una pantera splendida nell’immaginazione, che – come diceva Zanzotto in una intervista del 1981 in una scuola di Parma – se cerchi di normalizzare e standardizzare non si fa prendere neanche per la coda.  Ecco un desiderio più alto e più veloce della morte abituale.
Sarà pure un improvviso ed imprevisto scarto, ma dopo aver fatto sentire al giovane ricco il tuo profumo, balza su di lui come una pantera e travolgilo – ti prego, ti preghiamo… Non sei forse il suo Re dedito a una caccia rischiosa e irrinunciabile ?  
 
Batter my heart, three-personed God, for you
As yet but knock, breathe, shine, and seek to mend;
That I may rise, and stand, o’erthrow me, and bend
Your force to break, blow, burn, and make me new.
I, like an usurped town, to another due,
Labour to admit you, but Oh, to no end.
Reason, your viceroy in me, me should defend,
But is captived, and proves weak or untrue.
Yet dearly I love you, and would be loved fain,
But am betrothed unto your enemy:
Divorce me, untie or break that knot again,
Take me to you, imprison me, for I,
Except you enthrall me, never shall be free,
Nor ever chaste, except you ravish me.
 
Batti in breccia il mio cuore, o trino Dio; ché tu non hai fatto finora che bussare , spirare, splendere e cercar di emendare;
affinché io possa sorgere e drizzarmi, travolgimi ed avventa la tua possa su di me, a infrangermi, colpirmi, ardermi e rinnovarmi…
divorziami, sciogli o spezza quel nodo nuovamente, portami da te, imprigionami, ché se tu non mi fai schiavo, mai non sarò libero, né casto sarò mai, se tu non mi violenti ].
 John Donne (1572-1631), Poemi sacri, XIV
P.s.
A proposito del vuoto. "GUARDA QUESTA FINESTRA – dice Chuang -Tzu – NON È CHE UN BUCO VUOTO NEL MURO, MA GRAZIE AD ESSA TUTTA LA STANZA È PIENA DI LUCE".
 

Ma non ha raggiunto un amore
l’altissimo grado, se ancora 
ha cura di non esser veduto.
 
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Il giovane ricco

 IL GIOVANE RICCO
E LA VITA ETERNA
 
 
Et ecce iuvenis accedens ait illi: "Magister bone, quid boni faciam ut habeam vitam aeternam?" Qui dixit ei: "Si vis ad vitam ingredi, serva mandata". Dixit illi: "Quae?" Iesus autem dixit: "Non homicidium facies; non adulterabis; non facies furtum; non falsum testimonium dices; honora patrem tuum et matrem tuam; et diliges proximum tuum sicut te ipsum".
Dicit illi adulescens: "Omnia haec custodivi a iuventute mea: quid adhuc mihi deest?" Ait illi Iesus: "Si vis perfectus esse, vade, vende quae habes et da pauperibus, et habebis thesaurum in caelo; et veni, sequere me!" Cum audivisset autem audulescens verbum, abiit tristis; erat enim habens multas possessiones.
Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna? ”. Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre”.

Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: và, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”. Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni. Dal Vangelo di Marco: Mc 10, 17-22. (Marco 10, 17-31; Matteo19, 16-30; Luca 18, 18-30).
 
E’ il giovane ricco che parla, e dice : Fin da giovane avevo seguito quelle parole che più che “comandamenti” sono l’umanizzazione potenziale, se non imprescindibile,  del nocciolo oscuro della bestialità umana: uccidere, rubare, mentire, violentare, torturare, degradare, ridurre alla schiavitù sessuale, asservire al lavoro non remunerato e le altre sporcizie come l’invocazione vana del Santo Nome, la maldicenza e la calunnia. Ora, avendone sentito parlare come di un Maestro buono correvo perché desideravo incontrarlo, ma quando mi disse di vendere quello che avevo e di seguirlo, promettendomi un tesoro in cielo, non lo feci perché avevo in terra molti beni da amministrare, numerosi amici e parenti di cui prendermi cura e tanti conti da fare e libri da scrivere.
Lasciare ogni cosa e seguire quell’uomo sarebbe stata una follia. Era un divino tentativo di amore, niente di solido. Eppure…qualcuno, o forse qualcosa in me,  avrebbe osservato che me ne andai rattristato ( e anche lui lo era) perché avevo ceduto su quel mio scandaloso desiderio di completezza, di beatitudine, di assoluto che in un primo tempo mi aveva spinto ad incontrarlo.
Del dono di quell’ “amore senza limiti” – come poi, secoli dopo, dirà san Bernardo –  ho tuttavia ancora come un vago ricordo… Anzitutto il colore di quegli occhi nei quali per un attimo mi ero come assentato da me stesso, rischiando di perdere tutte le mie certezze, le mie abitudini e i miei beni.
Sull’insistenza del suo  sguardo colmo di compassione e di amore per me, scrissi qualcosa su un foglio volante. Non so perché volevo conservare la traccia di quell’istante in cui mi era sembrato di essere stato toccato dalla bellezza di questo mondo e del cielo.
Fu un istante di amicizia, raro come qualsiasi altro raro gesto di poesia, d’intelligenza o di pietà. Era vita, vita d’intensità prodigiosa… Ma a patto di restare in soggezione all’Altro, per essere portato alla condizione assoluta di una beatitudine che voleva dire distacco… Insomma, non me la sentivo di dover passare attraverso l’inevitabile Croce… E così avevo messo quel foglio di appunti sulla grande questione dell’amore in una scatola di scarpe, e l’avevo sistemata fra le tante altre scatole della mia biblioteca segreta. Ricordo di aver messo quel foglio insieme ad altri appunti sull’essere fuori e sulla trascendenza, come questi versi di Dante dal XXI Canto del Purgatorio: “ La sete natural che mai non sazia/ Se non l’acqua onde la femminetta / Samaritana dimandò la grazia”. Mai, nonostante le mie disordinate ricerche, anche di questi giorni, ho potuto ritrovare la lettera volante scritta dopo quell’incontro.
Quella lettera è forse scomparsa tra una citazione e l’altra, tra due echi che non sono una risposta, tra due libri? Insomma, cosa manca, manca infinitamente al mio desiderio del Regno di Dio ? E io, cosa sarei potuto diventare ? Un hippie ? Nonostante abbia osservato tutti i “comandamenti” e , grazie ai miei beni, fatta molta carità, forse perché ho letto troppi libri e sono troppo vigile, troppo ricco, non lo sapevo allora e non lo so neanche oggi.
 
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Lacan, Attorno al tradimento

Letture / Lacan sul comodino
DEL TRADIMENTO
Attorno al  tradimento. “Quel che chiamo cedere sul proprio desiderio si accompagna sempre nel destino del soggetto – potete osservarlo in ciascun caso, prendete nota della dimensione – a un qualche tradimento.
O il soggetto tradisce la propria via, tradisce se stesso, e lo sente anche lui. Oppure, più semplicemente, tollera che qualcuno con cui si è più o meno votato a qualcosa tradisca la sua attesa, non faccia nei suoi riguardi quel che comportava il patto – il patto qualunque esso sia, fasto o nefasto, precario, poco lungimirante, o addirittura di rivolta, e persino di fuga, non importa.
Si gioca qualcosa attorno al tradimento, quando lo si tollera, quando, spinti dall’idea del bene – voglio dire del bene di colui che tradisce in quel momento –, si cede al punto di abbassare le proprie pretese, e di dirsi – Ebbene, visto che è così, rinunciamo alla nostra prospettiva, né l’uno né l’altro,ma certo non io, non siamo meglio, rientriamo nella via ordinaria.
Lì potete esser sicuri che si trova la struttura che si chiama cedere sul proprio desiderio. Superato questo limite in cui collego nello stesso termine il disprezzo dell’altro e di se stessi, non c’è ritorno. Può trattarsi di riparare, ma non di disfare. Non abbiamo forse qui un fatto d’esperienza che ci mostra come la psicoanalisi sia capace di fornirci una bussola efficace nel campo della direzione etica?”
Jacques Lacan, il Seminario, libro VIII, L’etica della psicoanalisi (1959 – 1960), Torino, Einaudi, 1994, p. 403.
 Immagine
Caravaggio, La cattura di Cristo ( 1598 c. ), National Gallery of Ireland, Dublino.
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Camus, La Peste

LETTURE
CAMUS : da LA PESTE
.
… La città in sé stessa, bisogna riconoscerlo, è brutta.
 Di aspetto tranquillo, occorre qualche tempo per accorgersi di quello che la fa diversa da tante altre città mercantili, sotto tutte le latitudini.
 (…) I nostri concittadini lavorano molto, sempre per arricchire; s’interessano soprattutto del commercio e in primo luogo si preoccupano, com’essi dicono, di concludere affari.
Naturalmente, hanno anche il gusto delle cose semplici, amano le donne, il cinematografo e i bagni di mare; ma, assai ragionevolmente, riserbano i piaceri per il sabato sera e la domenica, cercando, negli altri giorni della settimana, di guadagnare molti soldi. (…)
 Di più originale, nella nostra città, vi è la difficoltà che si può trovarvi a morire; difficoltà d’altronde, non è la parola giusta e sarebbe più preciso parlare di scomodità.
Non è mai piacevole essere ammalati, ma ci sono città e paesi che ti sostengono nella malattia, in cui si può, in qualche maniera, lasciarsi andare.  Un malato ha bisogno di tenerezza, gli piace appoggiarsi su qualcosa, è naturalissimo. Ma qui gli eccessi del clima, l’importanza degli affari che vi si trattano, il poco rilievo dell’ambiente, la rapidità del crepuscolo e il genere dei piaceri, tutto richiede la buona salute.
Un malato vi si trova proprio solo.
(…) Queste poche indicazioni danno forse un’idea sufficiente della nostra città; del resto non si deve esagerare nulla. Bisognava solo insistere sull’aspetto comune della città e della vita.
Ma si passano le giornate agevolmente, non appena si hanno delle abitudini e, dal momento che proprio la nostra città favorisce le abitudini, si può dire che tutto va per il meglio. Da questa visuale, certo che la vita non è molto appassionante; da noi, almeno, non si conosce il disordine.
Questa città senza pittoresco, senza vegetazione e senz’anima, finisce col sembrare riposante,  e vi ci si addormenta.
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Alla brezza del giorno

… ALLA BREZZA DEL GIORNO
 
 Tommaso Masaccio
 La colpa primaria è un atto indicibile. Fin dal primo giorno, da sempre, egli, l’invisibile, ci pone una domanda terribile: “ Dove sei?”.
E’ il peso di un inizio e, nello stesso tempo, di una rottura che suona come una colpa, una vergogna, una perdita e un tentativo di nascondimento. Un sentirsi comunque in mancanza: anzitutto di danari per i saldi di fine stagione questa notte a Milano, e poi naturalmente di tenerezza, d’infinito, forse di un piccolo gesto d’intelligenza, di poesia o di pietà in risposta a una vera domanda.
Eccoci  “a ruota” ( come si dice nel gergo dei drogati), in mancanza di parole che non siano un’eco, ma voce che risponda invece di mancare infinitamente… ( “Avete bisogno di parole?”, chiede zio Bill, William Burroughs, affacciandosi dal cielo degli autori, echeggiando e nascondendosi, quasi cospirando  in una parentesi. Scusatelo se s’intromette…).
 “Dove sei?” In un giardino piantato in noi da prima che cominciasse la storia. Forse in vertigini di stelle che non sono stelle, l’oceano della vita e della morte.
In ogni caso, Adamo non sapeva rispondere… Quello che provava mentre cercava di parlare a Dio sulla sua linea telefonica speciale era la paralisi di fronte all’invisibile, un pugno che bloccava il petto, proprio sotto il collo…Per la prima volta aveva incontrato l’angoscia. Palpitazioni, un vuoto allo stomaco bloccato da una  palla di ferro senza voce né soffio, malessere che cresceva sordamente… A ondate. Ondate d’invisibile e quella tipica, sgradevole sensazione kafkiana di un “continuo mal di mare in terra ferma”.  L’angoscia è una “ventosa sull’anima”, avrebbe detto con voce roca, quasi senza voce, Antonin Artaud. Certo, noi creature civilizzate & letterate abbiamo tutti, prima o poi, l’impressione che qualcosa, fin dai primordi, debba essere andato storto nell’universo… ( “Gulp!” faceva Adamo e “gulp! glup!” ripeteva Eva, accavallando la “p” e la “u” e muovendo nervosamente le dita dei piedi, ma non era un fumetto…).
“Dove sei?” Nell’angoscia, vale a dire – dopo un primo momento di disorientamento – sulla via obbligata dell’ingresso nella scrittura : un impotere esplorato da Blanchot e Derrida, la vertigine del “come cominciare” evocata da Beckett, “l’esperienza abietta” della psicanalisi secondo Lacan, il pullulare informe dell’essere per Levinas ? Adamo era nel pensiero, ma cos’è il pensiero di Adamo se non una figura dell’angoscia ?
L’angoscia provata dai progenitori in quel giardino non aveva nulla di familiare, non somigliava a quelle paure o a quei segreti che diciamo “intimi”: era la terra che diventava deserto, gli alberi del Paradiso che bruciavano, diventavano la polvere roteante  del post-moderno,  del post-mortem e post-tutto. “Dove sei?”. Nell’ “intimo” della polvere e dei miraggi della polvere, un fiore del Paradiso spezzato da lontano ai gomiti e ai ginocchi, mentre la memoria di Adamo diventa densa, agglutinante – come pare sia la memoria di tutti gli esseri incompiuti…
“Debbo morire, Signore?”. Anzi: “Signore & Tutore?”. ( Ecco : “ … l’angoscia è appunto qualcosa che si situa altrove, nel nostro corpo, è il sentimento che sorge dal sospetto di essere ridotti al nostro corpo” . Lo ha notato Lacan, La terza, in La psicoanalisi, Astrolabio, Roma, 1933, p. 103; citato da Giuliana Kantzà, Il Nome-del-Padre nella Psicoanalisi, Milano, Edizioni Ares, 2008, p. 174). Il sospetto di essere ridotti al nostro corpo è, oggi, un’angoscia diffusa…Insomma, non solo si deve morire, ma occorre anche che avvenga “con dignità”, cioè in buona salute, altrimenti qualche tutore, mosso da quello che egli chiama a gran voce  Amore, può sempre chiedere e ottenenere da qualche giudice di manica larga che ti venga tolto quel brutto sondino. “Buona morte, figliola!”. “Altrettanto, papà”. Ad ogni modo, ecco Adamo, con il ditino, il sondino e quant’altro puntato, non senza vigliaccheria, sulla piccola Eva, che a sua volta, niente,  si mette un dito in bocca come una bimba persa ai margini di un bosco e si dice “un attimino” ingannata dal serpente, da allora suo eterno nemico…eccetera.

Insomma, Adamo era stato trasformato in "peccatore", cacciato in una gabbia, lo si era rinserrato tra idee semplicemente orrende e lì se ne stava malato, miserabile, maldisposto verso se stesso: colmo d’odio verso gli impulsi vitali, pieno di sospetto contro tutto quanto era ancora forte e felice. Insomma, un "cristiano". (Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli).

 Un incidente orrendo in Paradiso così come oggi a Llorett de Mar proprio mentre impazza la movida. Bye bye vacanze, giostre scavalcate, crociere di sogno immaginarie…Ma cosa aveva fatto Adamo ? Aveva abbandonato la placida orizzontalità dell’animale, si era alzato in piedi – scoprendo peraltro i genitali alla vista di Eva, del serpente e degli angeli senza culo ?  Forse, morsicando con piccoli denti una mela verde, perduta per sempre da Eva in quel giardino, avevano cominciato il pranzo della vita dalla frutta. Dal Frutto Proibito dal capobranco ? Proprio quello che non bisognava fare: uccidere a pietrate e con la clava  papà scimmione per divorarlo al fuoco di un bivacco … mentre tanta, troppa luce scendeva dall’alto e – con il passar del tempo – piegava e quasi trasformava tanti onesti cannibali in un punto di domanda: ?
Eccoci con Adamo dove non c’è dove: a seppellire in fretta vertebre di antenato, ossicini e torsoli di mela; e tappare ben bene i  buchi – buchi anche di memoria e piccole ferite, buchini quasi insignificanti…
Fu solo il loro accumulo, l’accumulo di tanti buchini, ossa spolpate e piccole ferite, anche narcisistiche, volendo, che finalmente convinse Adamo che la cosa era davvero grave. Ma quella Cosa lui non poteva dirla. Poteva solo accorgersi dell’evidenza della catastrofe e indossare tra culla e bara il famoso cache-sexe sul reale del sesso. Raramente, qualcuno tra noi viandanti lascia intravedere, attraverso il suo bel volto, l’invisibile, assoluta nudità della vita. E’ un lampo di estasi pura. Ma anche un vino che, se bevuto a garganella, potrebbe provocare ebbrezze criminali agli amanti sprovveduti. In ogni caso, per avanzare sul teatro del mondo e diventare persona occorre una maschera. Gli adolescenti lo sanno. E sapere di dover giocare un ruolo è per loro una sorpresa spaventosa. E’ l’ora tragica della scelta, e anche dell’orribile libertà di non essere, magari continuando a sognare arcobaleni senza che prima sia scoppiato l’uragano…Chissà perché quel giorno gli angeli riempirono il Paradiso di tutti quegli strepiti. Parevano strilli di uccelli tropicali. E in giardino ormai incombeva il fulgore di una spada fiammeggiante e risuonava un altolà che da allora non cessa di ghiacciare il sangue nelle vene degli amanti e dei viandanti.
Non si sa. Si va verso il punto esatto della fenditura di un soggetto e di un reale sessuale che non è un idillio ( e neanche il luogo della parola e della confidenza fra lui e lei, o addirittura della gestione-ottimale-dei-bisogni-della-gente – come dicono gli stupidi guardiani dei bisogni, organizzatori di movide e girotondi ). Predisposti a venire alla luce nel luogo del trauma, in un luogo tanto bello e terribile, abbiamo comunque la necessità, per vivere sufficientemente bene, di raccontarci delle storie e coltivare illusioni che ci proteggano, almeno in parte, dalle angosce e da quei dèmoni accovacciati alla nostra porta. Sono quei dèmoni da giardino che per tranquillità chiamiamo “fantasmi”. Ma i dèmoni esistono. E non sono innocui nanetti da giardino o cagnolini…Vengono travestiti da cari fantasmi sia dall’esterno che da noi stessi; e danno talvolta, nel bene e nel male, una qualche rappresentazione e prospettiva ai cosiddetti bisogni e desideri profondi.
Il risveglio, nonostante i tanti farmaci e i giri senza fine di travestimenti multipli, potrebbe anche essere brusco e provocare disillusioni tremende. Disillusioni lente, che si fanno nel solco dei sogni. Oppure improvvise. Ma come, ancora le grida, le campane, le ambulanze ?  Porte che sbattono. Che peccato che debba finire così! Davanti a tante porte chiuse, intasate dai fantasmi. Proprio qui in giardino, in un angolo di giardino insanguinato, un cesso rischiarato d’irrealtà.
Mancando l’essere e credendo di essere pensando l’essere – cosa di un’illusione totale – il primo degli uomini del “mito” della Genesi non ha risposto e ci ha trasmesso – attraverso il “mito” – la colpa primaria: non saper rispondere dal luogo detto della parola vera. Questo luogo nudo e vero – che a bassa voce, quasi senza voce, diciamo il luogo del peccato originale: luogo del crimine primordiale, anzi di un’innocenza e di una libertà ancora più antiche e criminali della colpa – è quanto abbiamo di più prezioso. Eppure il più delle volte l’angoscia è tale che non vogliamo saperne niente.
“La colpa in me è qualcosa di così vasto e radicato che il meglio è ancora di imparare a vivere con essa, anche se toglie sapore al cibo e al minimo alimento: tutti al mondo, anche da lontano, esalano un gusto di cenere”. ( Clarice Lispector, 5 luglio 1969, cit. da > Chemins ).  
Imparare a vivere, tessere il velo protettore di un racconto, della preghiera e del segreto, sono un impossibile in risposta alla nostra libertà e responsabilità inalienabili. La libertà, per esempio, di non sentirsi già tutti delle vittime e non trasformarsi – come per improvvisa amnesia – in tanti mucchietti d’immondizia piagnucolante. Resta, non sempre,  la speranza, tenace, simile a quelle erbacce che crescono ai bordi dei cimiteri, i campi di sterminio e i giardinetti insanguinati. Del meraviglioso giardino non restano che le erbacce,  che noi coltivatori chiamiamo tali, erbacce appunto, forse solo perché non ne conosciamo ancora e veramente a fondo le virtù. Chissà che da certe erbacce non si possa ricavare un qualche ricostituente, che so, un amaro tonico per la carne prudente, impaurita e che invecchia, insomma qualche lozione che eviti il cosiddetto “crollo verticale”, anche dei seni o, quel che è peggio in noi maschietti, della famosa mazza, e restituisca luminosità e robustezza a tanti bei capelli morti…

Mah! Alla fine occorrerà pure ringraziarlo per averci fatto, nonostante tutto, questa tunica di pelle umana. A meno di non voler sprofondare nella tristitia, in quel vero e proprio peccato che è l’accidia. Peccato mortale, in quanto, per san Tommaso, “tedio del bene spirituale e interno, per sua natura contrario alla carità”. E, con Lacan del Seminario VII, una viltà morale, in quanto l’accidioso  pensa di sottrarsi al dovere di bien dire,  di dire bene e  di benedire, ovvero “di trovar profitto dal ritrovarsi nell’inconscio, nella struttura”.
Ripartire dal luogo nudo e vero. Ma attraverso tante appuntite foreste di difesa, errori e cumuli di erranze erranze vane, cancellature e tagli, specialmente tagli nel vivo ?
Forse occorre il coraggio di essere teneri e non sottrarsi al dovere di bene dire. Se non proprio di dire grazie all’amarezza che è nel fondo del nostro liquore preferito.

Siamo responsabili di molte storie possibili, e anche dell’impossibile. Ah, l’impossibile! Volere l’impossibile non è forse, nella maggior parte dei casi, anche generazionali,  un alibi per non fare il possibile ? Intanto, nell’attesa, non inerte, dell’impossibile che passeggia nel giardino alla brezza del giorno, non è impossibile imparare a vivere con la colpa primaria che non si può dire.
P.s. Forse qualcosa del genere deve averlo pensato un giorno, o una notte, nonno Leonardo, cercando di non farsi cadere di mano il pennello  – pennello sottratto per un attimo a una “sana decisione di castrazione”, come ghignando avrebbe detto Umberto Eco. Accadeva proprio nel momento in cui Leonardo si era quasi deciso a dare un taglio a quella vecchia storia e incominciare a vivere:
…INCOMINCIARE A VIVERE
Mentre volevo incominciare a vivere
mi accorsi che dovevo morire.
                           Leonardo da Vinci
 
Leonardo, San Giovanni Battista ( 1508 – 1513 ), Musée du Louvre di Parigi.
E’ l’ultimo quadro dipinto da Leonardo.
 
Immagine
Masaccio ( Tommaso di Giovanni di Mone Cassai ), Espulsione di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre (1426-27), Cappella Brancacci, Chiesa di Santa Maria del Carmine, Firenze. Quanto a Masaccio, l’autore del quadro, ecco: « Fu persona astrattissima e molto a caso, come quello che, avendo fisso tutto l’animo e la volontà alle cose dell’arte sola. Si curava poco di sé e manco d’altrui. E perché è non volle pensar già mai in maniera alcuna alle cure o cose del mondo, e non che altro al vestire stesso, non costumando riscuotere i danari da’ suoi debitori, se non quando era in bisogno estremo, per Tommaso che era il suo nome, fu da tutti detto Masaccio. Non già perché è fusse vizioso, essendo egli la bontà naturale, ma per la tanta straccurataggine.» Giorgio Vasari.
 
 
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