Rembrandt fecit

REMBRANDT  FECIT


Autoritratto di Rembrandt ridente,
Wallraf-Richartz-Museum, Colonia

 

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Lucian Freud

LUCIAN FREUD. L'ATELIER

“Nella malattia ci rendiamo conto che non viviamo soli, ma incatenati a un essere di un diverso regno, dal quale abissi ci separano, che non ci conosce e dal quale è impossibile farsi comprendere: il nostro corpo”.
                                                                       
                                                            Proust, nei Guermantes


 

Il Centro Pompidou di Parigi dedica un omaggio singolare allo studio di Lucian Freud, uno dei più grandi pittori contemporanei, oggi 88enne. L’esposizione si organizza attorno al tema dell’atelier, questo luogo appartato e laboratorio che fonda la pratica del pittore che, attraverso il ritratto e il nudo, cerca di mostrare l’enigma e il mistero del corpo stesso della pittura ( « Voglio che la pittura sia carne »).

L'esposizione si dispiega nelle quattro grandi sale dell’ultimo piano del centro Pompidou, dove il visitatore è sovrastato da una cinquantina di opere, in gran parte pitture di grande formato, completate da una selezione di opere grafiche e dieci fotografie dell’atelier londinese dell’artista realizzate da David Dawson, assistente e modello di Freud.

Ad eccezione di  The painter's room ( del1944 ), tutte le altre tele sono posteriori al 1963. Data che con  Red-haired man on a chair segna l’inizio del predominio della materia sul contorno. A parte una mezza dozzina di  esterni dipinti dalla finestra dei diversi atelier (da quello di  Paddington dove s’installa nel  1943 per trent’anni, fino alla casa di Notting Hill passando per il loft di  Holland Park ) tutte le altre tele hanno per soggetto la messa in scena del  corpo fra gli oggetti rarefatti dall’atelier: qualche pianta verde, letti e poltrone usate, letti in ferro, lavabo, muri chiazzati di pittura. 

Fra la serie di ritratti, spiccano i recenti e imponenti ritratti di Big Sue e quelli di  Leigh Bowery   , capolavori del pittore confrontato nel chiuso del suo studio con il suo modello e con il processo della creazione, fra “piccole percezioni” ( Cèzanne) e gesti crudeli ma necessari che trasformano la carne in colore e luce.
 

 

LUCIAN FREUD. L'ATELIER
PARIGI, CENTRE POMPIDOU
DAL 10 MARZO AL 19 LUGLIO

 

Lucian Freud su Google Images
 

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Il lavello del pittore

MACCHIE D’ACQUA
 
"Quello non sarà universale che non ama egualmente tutte le cose che si contengono nella pittura; come se uno non gli piace i paesi, esso stima quelli esser cosa di breve e semplice investigazione, come disse il nostro Botticella, che tale studio era vano, perché col solo gettare di una spugna piena di diversi colori in un muro, essa lascia in esso muro una macchia, dove si vede un bel paese. Egli è ben vero che in tale macchia si vedono varie invenzioni di ciò che l’uomo vuole cercare in quella, cioè teste d’uomini, diversi animali, battaglie, scogli, mari, nuvoli e boschi ed altre simili cose; e fa come il suono delle campane, nelle quali si può intendere quelle dire quel che a te pare. Ma ancora ch’esse macchie ti dieno invenzione, esse non t’insegnano finire nessun particolare. E questo tal pittore fece tristissimi paesi. "  (LEONARDO DA VINCI – da " Il Trattato della Pittura")
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 Lucian Freud – Two Japanese Wrestlers by a Sink, 1983-87 – Olio su tela
 
Lo straordinario quadro di Lucian Freud intitolato “Due lottatori giapponesi e lavello” rappresenta il lavello dello studio del pittore.  Il titolo è piuttosto enigmatico, se non ironico: allude infatti anche a “due lottatori giapponesi” che non si vedono e non si sa cosa abbiano a che fare con il lavello del pittore… Come tutte le nature morte, il quadro  evoca presenze scomparse ( non a caso questo genere pittorico – sviluppatosi inizialmente in epoca ellenistica con mosaici di pavimento rappresentati resti di cibo , e affermatosi poi nel ‘600 e nel ‘700 nella raffigurazione di figure inanimate come frutta, o selvaggina morta – è ricollegabile al culto dei morti: il cibo caduto da tavola era destinato ai famigliari defunti).
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Le macchie che restano sul bianco delle mattonelle, fanno pensare al pittore e alle persone che hanno utilizzato il lavello nel corso del tempo. Mi colpisce anche l’acqua che scorre dai due rubinetti: lo sguardo va verso il bocchettone di scarico… e sembra quasi di sentire l’eco del risucchio… ( “un’eco spaventosa”, direbbe Walter Benjamin – quando evoca “la traccia del risucchio” a proposito di certe vecchie fotografie ingiallite, con quel tipico insondabile alone dove sembrano svanire tante care immagini…).  
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Quello che forse non si può dire perché è infinitamente perduto, lontanissimo, e nello stesso tempo, è troppo vicino al cuore, un pittore talvolta può mostrarlo.  Con Two Japanese Wrestlers by a Sink, il pittore mostra, maliconicamente e con ironia, che tutti, non solo i pittori decisivi, alla fine lasciamo una macchia e l’acqua che scorre…
 
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Un modesto fiumicello

 

UN MODESTO FIUMICELLO
 
Paestum è un posto particolare. Sono nato da quelle parti, ad Angri, e ci torno almeno una volta all’anno. Visito fra i turisti  i resti archeologici della grecità, architetture e immagini che suggeriscono un certo ordine morale. Come per esempio questa immagine che porto con me a Milano e, fattala incorniciare, conservo su una parete dello studio:


Lastra di copertura della Tomba del Tuffatore",  480-470 a.C. ,
Museo Archeologico Nazionale, Paestum
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Situata sul soffitto della tomba, pare rappresenti simbolicamente il passaggio dalla vita alla morte: le colonne segnerebbero i confini del mondo terrestre, mentre lo specchio d’acqua potrebbe rappresentare il fiume che porta all’oltretomba.
 
La morte è il soffitto. E tutto sommato vi si respira una certa intrepida serenità e una misura che potremmo definire ancora greca. Quella cosa oscura che l’uomo occidentale oggi paventa con eccessiva emozione come il punto, intenso e feroce, in cui la vita va al di là, nell’immagine della « Tomba del Tuffatore » sembra proprio, come direbbe Mallarmé : « un modesto fiumicello, a lungo calunniato ».
 

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Sognare di volare

THALASSA
 SOGNARE DI VOLARE
 
Non ci si bagna due volte nello stesso fiume perché già l’essere umano, nel profondo, ha il destino dell’acqua che scorre. ( Eraclito)

 [APESANTEUR.jpg]
 
 Quelli che Freud considerava flugträume (sogni di volare), «devono essere considerati come una ripetizione del primissimo rapporto madre-bambino, o di una ancor più precoce esistenza intrauterina durante la quale (… ) galleggiano nel liquido amniotico senza dover portare praticamente nessun peso».
 
Nessun peso ? Sarebbe bello restare per sempre a pensione da mamma,  in una stanza in cui non fare entrare mai nessuno, nemmeno il babbo. Fuori dai coglioni di tutti ! Magari in un utero caldo e accogliente: cullati e nutriti, in  simbiosi per tutta la vita …Ma questo non può accadere, perché la mamma ne morirebbe – e con lei  anche il piccolo subacqueo o fratello-feto allucinato. Nascere è una rottura.
 
… Riprendendo la favola dell’androgino sferico primordiale narrata da Aristofane nel Banchetto di Platone, Lacan analizza il bisogno in correlazione alla mancanza, e trasforma con umorismo la mancanza in hommelette. Così come non si fa la frittata (ommelette) senza rompere le uova, non si diventa soggetto uomo ( homme) senza passare per l’hommelette – vale a dire per la frattura dell’uovo-placenta  come oggetto primordiale perduto.
 
L’oggetto della prima perdita sarebbe un organo quasi magico che la pulsione ( la forza organica), intercalandosi tra il bisogno e il desiderio, cercherebbe di raggiungere negli oggetti e negli altri individui, per sopprimere ogni stato di tensione. (  Se per soddisfare il bisogno di mangiare basta essere uno, per soddisfare il bisogno di sesso e di amore occorre essere perlomeno in due. Naturalmente è proprio l’altro individuo a costituire gran parte del problema.)
 
Intervenendo nello psichismo umano per mezzo di una rappresentazione, questa forza organica ( Eros, per Platone), affiora come libido; e può essere rappresentata, secondo Lacan, dalla mitica lamella-placenta che ritorna, anche in sogno, ad avvolgere colui che l’ha perduta. Ritorna nel vecchio sogno del matrimonio, per esempio, spesso rappresentato da una bella stufa calda… Oppure ritorna come pulsione di morte nel sogno, ricorrente nei cosiddetti kamikaze, del paradiso delle urì ( “dove – come ci assicura Pietro Citati – «non esiste colpa, non esiste sesso, non esiste storia, esiste solo una beatitudine infinita. ” Boum !
 
Lo psicoanalista Sàndor Ferenczi, nel suo libro Thalassa, sostiene che l’agognato ricongiungimento al corpo materno e al liquido delle origini si potrebbe riprodurre realmente, seppur simbolicamente e parzialmente, solo nel rapporto sessuale.
 
… Attirato dall’odore marino, salino, della vagina ( “odore di aringa in salamoia” scrive Ferenczi);il desiderio di regressione thalassica ( o anche di ripresa del passato acquatico, perché no ? ) si realizzerebbe nel coito e nella transe orgasmatica, ma solo per una piccola parte del corpo maschile : il pene ( non a caso detto “pesce”; mentre si realizzerebbe  invece totalmente per quanto riguarda il suo seme : «lo spermatozoo penetra nel micropilo dell’uovo come il pene penetra nella vagina; si sarebbe tentati di denominare, quanto meno nel momento dell’accoppiamento, il corpo del maschio megasperma e quello della femmina megaovulo».Stabilendo un’equivalenza immaginaria pene-seme-bambino, secondo un modello penetrativo e generativo della sessualità maschile, Sàndor Ferenczi non ci spiega perché le donne fanno l’amore con gli uomini, attratte da quel loro tipico odore di scimpanzé. O meglio, Ferenczi sostiene, non senza qualche difficoltà, che anche la donna può soddisfare il suo desiderio di ritorno al corpo materno e all’origine acquatica, identificandosi con l’uomo prima, con il feto ( allucinato ) poi. [Si veda Thalassa. Saggio sulla teoria della genitalità, di Sándor Ferenczi (1924), Raffaello Cortina Editore, Milano 1993 ; citato in Odori di Gianni De Martino, Apogeo-Urra, Milano, 2006.  Nell’edizione ungherese, del 1932, il saggio di Ferenczi era stato intitolato Funzione delle catastrofi nell’evoluzione della vita sessuale ].
La nascita  è una catastrofe simile alla morte, una rottura necessaria e faticosa. E l’apparizione della luce, vale a dire dell’immaginario che struttura lo psichismo umano, è simile a una caduta dolorosa fra illuminazione e abbaglio ( dove tutto è molto chiaro, ma anche le idee più chiare, forse soprattutto quelle, brillano su sfondo oscuro. ) Se infatti la luce si trasforma in “giorno”, non tutte le tenebre si trasformano in “notte” senza un resto di abisso…
 
… Così, tra vette o baratri, nonostante “l’immensa stanchezza del corpo” ( come osserva Deleuze, a proposito di certi quadri di Lucien Freud ), il desiderio riprende le ali. E in un corpo prudente, impaurito e che invecchia,  nasce – ancora una volta – il sogno di volare ! Forse questione di uno strano desiderio di mare, di cielo… d’immaginario che più non trascina o spinge, di nervi che non pesano più. Insomma, fuori di sé e in risonanza estatica, non in un rapporto di causalità stretta, con il gorgo vuoto del godimento sessuale.
Tra culla e bara, vale a dire fra due pulsioni, affiora il desiderio – ineliminabile da ogni vita umana – di uno spazio di non-morte. Sembrerebbe godimento oltre il godimento : la danza lieve e immacolata dei pesci e dei beati – forse una ripresa possibile. 
 
In ogni caso, un  non so che  d’infinito si fa strada già in utero, affiora dall’ “ombelico dei sogni”;  e riprendendosi in forma – sempre singolare – di strana fedeltà alla vita, fiorisce talvolta sul terreno della poesia, della follia e della fede. Più fedele alla vita di quanto la vita non lo sia a se stessa, una tale fedeltà all’infinito della vita accoglie un altro desiderio,  apparentemente più alto e più veloce della morte abituale. E genera una fragile felicità. Forse la gioia resta – nonostante, o forse proprio attraverso la rottura di tante uova nel paniere.
 
D’altra parte, la veglia della ragione genera ben altri mostri. E il nostro tempo, il tempo della gestione ottimale dei cosiddetti bisogni, produce un nuovo mito : quello dell’utero artificiale. Con la produzione dell’essere umano attraverso la scienza e la tecnica, non si pensa forse di eliminare definitamente l’utero-lamella ? Fabbricare un uovo perfetto che non si romperebbe mai. Ora  l’ombelico dei sogni  è una specie di apertura, a partire dalla quale tutto quello che fiorisce nell’inconscio “si diffonde come il micelio attorno a un punto centrale”  (Lacan).
Riempendo i buchi, tutti i buchi, proprio come fa la morte, si vorrebbe esternizzare l’uovo e perfezionarlo, renderlo virtuale. Per eternizzare il transitorio occorre sopprimere l’utero, la placenta, la lamella, e ovviamente l’uomo o l’hommelette. Basta con l’inconscio! Ecco il messaggio : che niente più sfugga da quest’uovo e dalla fragile felicità che resta nell’uovo rotto, soprattutto non sfugga una lamella che verrebbe ad avvolgerci la notte e farci sognare dell’altro.
Ma la lamella è imprendibile, diffusa ovunque e in nessun luogo. Platone la collegava alla mancanza ed evocava Eros ( figlio dell’Indigenza e dell’Industriosità). Con termine che ormai sembra banale, se non banalizzato, si potrebbe anche dire “amore”. E’ quello che chiamiamo, per tranquillità, “pulsione umana”: la libido  che sopravviene fin dalla nascita e scompare alla morte.
Ma sparisce davvero ?
 
Simile a una tomba vuota, un uovo bianchissimo impalpabilmente viene ad avvolgerci, specialmente la notte. Viene a dirci addio persino in sogno, ma poi ritorna quando meno ce lo si aspetta. Per esempio nell’inquietante stranezza, l’ “Unheimlich”. O perlomeno di quello che oggi resta dei poeti.
Della creatura tagliata dal prima e dal dopo,  restano;- oltre alle forse inevitabili macchie che ogni creatura o hommelette lascia, alla fine – restano le tracce marine, saline, di ciò che è stato e la tensione verso il futuro – in un tempo lacerato tra la stanchezza e l’attesa.
Scrivere è attesa non inerte. Comporta la sorpresa e il rischio di toccare quello che è immerso nel mare e i flussi e i riflussi delle maree irregolari.
Il mare, simbolo della madre, è popolato da ninfe che parlano e fanno salire la scrittura, mentre l’umido spunta al bordo degli occhi che sorvegliano le parole, non solo le emozioni e i sentimenti…Il tempo della siccità interminabile forse potrebbe finire. E anche l’interminabile potrebbe cedere.
 Malgrado la perdita di te sia infinita, resta – nella vita, così come nella scrittura – il sogno di riabbracciarti perlomeno in sogno, e di volare. Ma è forse soprattutto nelle altezze, che occorre rinunciare anche a questo sogno di fusione. E, tendendo le mani per altro che per prendere, lasciar passare questo imperfetto abbraccio con il mare e il cielo.
 
Sulla riva, ormai asciutta, dei tuoi sogni, passa la storia di un piccolo subacqueo, forse ipertrofico. Era dove qualcuno – più spesso qualcuna –  sentiva battere un cuore e scorrere l’acqua. Chi vive ?
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Magritte


Colonna sonora
Non so volare 
  

Mondo Marcio (2004 ).  Dall’album d’esordio di Mondo Marcio, pseudonimo di Gianmarco Marcello, giovane rapper milanese, generato dal mondo hip-hop italiano.
ma ti giuro che una volta ci sono stato in alto
troppo lontano per poterci tornare, c’era
un marcio che mi sembrava un angelo bianco
al mio fianco e mi stava accanto tra le stelle e il mare
guardavo il mondo girare senza nessun rimpianto
c’era soltanto nuova terra da coltivare
un solo popolo una sola anima e nient’altro
e uomo sapevo di sognare, un marcio non sa volare…
 
«… Riesci quasi a trovarci un senso in tutto questo. Finché un giorno non arrivano loro,
 i fantasmi… » .


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Piccoli ipertrofici

PICCOLI IPERTROFICI
HOMMELETTE FOR HAMLET
 

… Et j’ veux aller là-bas

Fair’ dodo z’avec elle…
Mon coeur bat, bat, bat, bat…
Dis, Maman, tu m’appelles ?
 
Jules Laforgue,
 
… Non esiste più la placenta, perlomeno così pare, eppure l’avvolgente lamella ( il mitico organo della libido, derivato dalla prima perdita o mancanza radicale, secondo Lacan*) talvolta ritorna per permettere al soggetto allucinato o addormentato di realizzare il suo desiderio di ritrovare il seno della madre e il mare, perlomeno in sogno…
 
Poi – confondendosi con il bisogno più elementare – sfugge di nuovo per infiltrarsi in tutti gli orifizi del corpo e nelle aperture ( beances) dello psichismo. E articolandosi al linguaggio come una specie di bianco di uovo rotto, viscoso, scivoloso, imprendibile, può apparire  nel soggetto parlante come pulsione invocante :
 
[…] J’ suis jaune et triste, hélas!
Elle est ros’, gaie et belle!
J’entends mon cœur qui bat,
C’est maman qui m’appelle! […]
 
 
E’ l’appello del piccolo ipertrofico di Laforgue – in un inquietante monologo ripreso da Tommaso Ottonieri ( qui in video ) nel suo libro Dalle memorie di un piccolo ipetrofico, con Prefazione di Edoardo Sanguineti ( Feltrinelli, 1980 ; No Reply, collana Maledizioni, 2008), oltre che da un « non nato » e quindi « mai morto » Carmelo Bene, in Hommelette for Hamlet  1987) – "operetta inqualificabile", in pratica una postrema frittata ( ommelette)  tra Shakespeare e Laforgue.


« …Sento battermi il cuoricino/ è mamma che mi chiama ! ».
 
 
  * Jacques Lacan, L’inconscient, Desclée de Brouwer, 1966, pp. 159-170.
 
 
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Dopo la festa

DOPO LA FESTA
( Après la fête )
 

Clip di Philippe Découflé della canzone "Le petit bal perdu (c’était bien)" cantata da Bourvil.
Parole: Robert Nyel ;  musica : Gaby Verlor, 1962.
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L'amore per l'India

L’AMORE PER L’INDIA

Indian police and rescue workers inspect the scene of an explosion in a German Bakery business close to the Osho Ashram in Pune, India, 13 Feb 2010

 
 
 
 
Intanto, le autorità indiane sospettano che l’attentato di sabato in un ristorante di Pune,nell’India occidentale, che ha fatto nove vittime, tra cui la giovane Nadia Macerini, insegnante di yoga che diceva di aver trovato in India la sua « dolce casa », sia stato compiuto nell’ambito del « progetto Karachi ». Il progetto terrorista è messo a punto dal gruppo islamista pakistano Lashkar-e-Taiba e dagli studenti dell’Indian Mujahideen, di cui fanno parte i due terroristi jihadisti Abdus Subhan Qureshi e Mohsin Chaundhary – quest’ultimo un residente di Pune -, ricercati dalle autorità di Nuova Delhi. Lo riporta il sito web del Times of India. >http://timesofindia.indiatimes.com/videoshow/5574771.cms
 

La ‘German Bakery’ non era considerato un "obiettivo sensibile", mentre lo era l’Osho Ashram, frequentato in passato dal cittadino pachistano-americano David Hendley, arrestato in ottobre a Chicago per complicità nell’attentato di Mumbai. E nel mirino dei terroristi islamici poteva essere, a qualche centinaio di metri nel Koregaon Park, anche la Chabad House, luogo di culto ebraico. "Ma gli attentatori – ha sostenuto il ministro dell’Interno, P. Chidambaram – hanno scelto il famoso caffé perché sempre pieno di turisti stranieri". Una perfidia a cui non si era ancora preparati, tanto sembra incredibile, ancora una volta, che per un islamista o un gruppo islamista un obiettivo possa essere « sensibile » semplicemente perché frequentato da « infedeli occidentali » o « kuffar ».

“Oggi  – scriveva Lévi-Strauss nel 1955, in Tristi Tropici –  è attraverso l’islam che contemplo l’India; quella di Buddha, prima di Maometto, il quale , per me europeo e perché europeo, si erge fra la nostra riflessione e le dottrine che gli sono più vicine come un rustico guastafeste che impedisce un girotondo in cui le mani, predestinate ad allacciarsi, dell’Oriente e dell’Occidente, sono state da lui disgiunte.

(…) I due mondi sono fra loro più vicini di quanto l’uno e l’altro non lo siano al loro anacronismo. L’evoluzione razionale è inversa a quella della storia. L’islam ha tagliato in due un mondo più civile .(…)
Che l’Occidente risalga alle fonti del suo laceramento: interponendosi fra il buddhismo e il cristianesimo, l’islam ci ha islamizzati (…).  L’Occidente si lasciò trascinare dalle crociate ad opporglisi, e quindi ad assomigliargli, piuttosto che prestarsi a quella lenta osmosi col Buddhismo che ci avrebbe cristianizzati di più, e in un senso tanto più cristiano in quanto saremmo risaliti al di là dello stesso cristianesimo. E’ allora che l’Occidente ha perduto la sua fortunata possibilità di restare donna.” ( Claude-Lévi Strauss, Tristes Tropiques, Parigi, Plon, 1955, pp.472-473).
Sono le parole strazianti di un mitologo, che forse mitizza l’identità “aperta” dell’Europa, ma che vanno prese sul serio. Esse ci dicono che un Occidente errante, disponibile, aperto e accogliente, avrebbe incontrato attraverso la spada dell’ islam e quell’anacronismo disperato che è l’islam l’interponente che le impedirebbe di realizzare il suo destino identitario di donna.

Le parole di “Tristi tropici” ci dicono tutto questo e piangono un Occidente che non può raggiungere il suo Oriente estremo, né chiudere il cerchio dell’identità dell’identità e della differenza.
Insomma, l’altro come disgrazia, come deviamento, dirottamento, sottrazione. Se non addirittura come “giusta punizione del Signore” per l’ignavia di non saper difendere l’identità cristiana, e anzi sputarvi sopra – secondo alcuni vescovi e taluni cristiani cristianisti.

Fattori inconsci e di disconoscimento sembrano essere oggi all’opera  di fronte agli orrori, ormai quasi quotidiani del terrorismo islamico. In Europa si giunge fino a negare l’evidenza dell’aggressione islamista per vergogna, oppure a esagerarne le caratteristiche di “scontro delle civiltà”. D’altra parte, disorientare, colpevolizzare, sottomettere, stremare e avvilire è proprio ciò a cui mira la pratica del terrorismo jihadista. Nell’epoca dello squilibro del terrore, o si esagera o si minimizza. Spesso si distoglie lo sguardo per "non vedere".

E’ come se l’islam fosse il velo dell’Europa, di una donna che un maschio taglia da se stessa. Un tale complesso è tanto più rilevante se si considera – al seguito degli studi dello psicoanalista franco-tunisino Fethi Benslama – che “l’islam ha di fatto cercato di tagliarsi dalla propria femminilità originaria”, rimuovendo, velando e opprimendo l’alterità femminile e tutto quello che si mostra aperto, accogliente, democratico, cristiano – vale a dire altro dall’islam politico che oggi occupa e oscura la scena. Generando negli Occidentali violenza e collera, in taluni casi, e più in generale un indietreggiamento davanti a tali orrori , al punto che più spesso ci si rifugia in una ignoranza voluta utilizzando tutte le forme di diniego, di rifiuto psicologico dominato da fattori inconsci, e di disconoscimento.
Di fronte alle nere maree del Dio oscuro e dell’immondo che avanza, chissà quante altre lacrime e sangue dovrà piangere l’Europa, prima del disvelamento dell’Occidente e l’incontro, a mani giunte e in pace, con il suo Oriente estremo. Un Oriente che più che un luogo geografico è una « zona » dello spirito,  quel « luogo » dolce, e che mai sarà invaso, dove ognuno, ognuna, vorrebbe essere accolto come vuole il « cuore ».
Certo la meditazione, la preghiera e lo yoga sono importanti, ed anche amare il prossimo come se stessi lo è. Una delle barriere più forti contro l’aggressione è il precetto "ama il prossimo tuo come te stesso".

Ma, come già notava Freud in "Disagio della civiltà", scritto nel 1929, alle soglie dell’avvento sfolgorante, quindi non visto, del nazismo, attenersi letteralmente al precetto, mette solo in svantaggio rispetto a chi non se ne cura. " Che immane ostacolo alla civiltà dev’essere la tendenza aggressiva – osservava Freud – , se la difesa contro di essa può rendere tanto infelici quanto la sua stessa esistenza!" Insomma,  non è giusto morire vittime dell’odio che si arroga il diritto di uccidere e di distruggere « nel nome dell’islam » anche l’Amore che né da fuori né da dentro mai sarà distrutto.

Ciao Nadia. Buon ritorno all’Oriente di tutti gli Occidenti e di tutti gli gli Orienti. Buon ritorno a casa.


 

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Il gesuita danzante

 DANZA INDIANA PER CRISTO 

 
Ciascun amante, amatore del Signore, venga alla danza, cantando d’amore.
 – Jacopone da Todi  

    Padre Saju George gesuita danzante. Dalla sua nota biografica ( QUI): “Per Padre Saju, la danza è un mezzo di preghiera e adorazione, di piacere estetico e integrazione cosmica, incontro tra oriente e occidente, e molto altro ancora”.

 

I gesuiti sono portati da una lunga tradizione ad assumere le forme d’arte delle più diverse culture per comunicare in maniera efficace il messaggio del Vangelo. Lo fanno all’interno della tradizione cattolica, che già in passato li portò a promuovere le immagini sacre e a perfezionare l’arte del balletto in stile barocco ( Cfr.Alessandro Arcangeli, “I gesuiti e la danza”, Quadrivium,n.s., n. 1.2, 1990, p. 21-37).

Tanto che  a  Parigi, nel XVII° secolo, era comune sentir dire che nessuno sapeva fare le pirouettes meglio dei gesuiti !  ( > voir les jésuites et la danse).
 “Dobbiamo passare attraverso un rigoroso addestramento fisico e mentale”, dice padre Saju in una intervista. “ La danza è parte integrante del mio sacerdozio e comporta un impegno di tutta la persona, corpo e anima.” In effetti il prezioso corpo umano è il mediatore indispensabile dell’avvicinamento percettivo, emotivo e cognitivo al mistero del divino.  
 A quei cristiani platonizzanti che lo criticano, nel timore che il linguaggio del corpo possa suscitare sensualità, il gesuita danzante risponde che “la bontà di Dio è incisa in ogni fibra della Creazione” e che i timori dei censori derivano da una mancanza di comprensione o da blocchi mentali, dice Saju, aggiungendo: “ Credo che il corpo sia il tempio dello Spirito santificatore e glorifico Dio nel corpo in cui sono nato” (1 Cor 6,19 – 20).
 Così, quando esegue l’ ananda-tandava, la danza di Shiva Nataraja, che ha origine nel tempio indù e simboleggia i cinque atti cosmici di Shiva – vale a dire, la creazione, la conservazione, distruzione, occultamento e conferimento della grazia – afferma di non trovarla contraria a quanto l’azione divina manifesta nell’esperienza  quotidiana e la pratica liturgica.

 Passi di danza annunciano la  ‘buona novella’ del Cristo crocifisso-risorto. Kolkata, la Provincia dei Gesuiti a cui appartiene Saju, è favorevole alla sua missione di evangelizzazione,  perché, quando Sant’Ignazio ha parlato di una “maggiore gloria di Dio” nel contesto di “trovare Dio in tutte le cose”, ha voluto che i suoi figli spirituali santificassero ogni ambito della vita e della cultura della vita.

“ … Sento le mie membra diventare splendide al tocco di questo mondo pieno di vita. E la mia gioia viene dall’eternità che danza nel mio sangue in questo istante
( Rabrindanath Tagore, Gitanjali – Offerta di canti n. 69).
 

Padre Saju George nella chiesa di Schottenkirche (Vienna) il 18 maggio 2009


LINK UTILI
         Danzare la Parola
Nell’opera dei gesuiti, e dei francescani, la danza riveste una funzione educativa o didattica, come forma di rappresentazione della fede.
www.caritas-ticino.ch/…/03%20-%20Danzare%20la%20Parola.htm
 
          Danza sacra in San Fedele
La Stampa del 23 dicembre 2006.
 
         Discipline e tipologie di danza – portale della danza – DANCEVILLAGEBalli e danze nel mondo. Un viaggio nella storia della danza, dalle sue origini ad oggi.
 
         Passaggio in Asia (Intervista a Raimon Panikkar di Mauro Castagnaro)Raimon Panikkar è autore di una quarantina di libri, tra cui Il Cristo sconosciuto dell’induismo, La Trinità e le religioni del mondo e Il silenzio del Buddha.
www.gianfrancobertagni.it/…/raimonpanikkar/passaggio.htm
 
         La necessità di uno yoga occidentale (Mariano Ballester S.J.)
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Il vescovo e la virilità

IL VESCOVO E LA VIRILITA’
Monsignor Simone Scatizzi Dove sono più i bei maschi italiani di una volta ? Tempo fa, nel  2005, l’allora vescovo di Pistoia, Simone Scatizzi, autore di un delicato libro di poesie intitolato Foglie d’Autunno, prese carta e penna e scrisse una lettera al consiglio comunale della cittadina toscana nella quale criticava una  mozione che preludeva all’approvazione delle unioni civili. Tutto è discutibile, perlomeno in democrazia.
 
Quello che colpì i consiglieri fu il tono accorato della lettera, nella quale monsignor Scatizzi lamentava lo  “svilimento della mascolinità in una società che si va sempre più femminilizzando”.
 
Molto preoccupato della perdita della virilità del maschio, nella sua lettera Scatizzi scriveva che la prova di questo fatto sarebbe che gli uomini spendono sempre più in cosmetici vari, parrucchieri e chirurgia estetica.
 
 In pratica, il porporato – avvolte le sue rotondità in una gonna di pizzo bianco su sottoveste fucsia –  lamentava l’accentuazione della femminilità innaturale negli uomini che spesso fanno perdere loro la caratteristica della virilità.
 
E confondendo sesso e virilità, additava gli “omosessuali”segnalandoli come i colpevoli della scomparsa dell’afrore del maschio, spingendosi sino a paragonarli alle femminucce, ai pedofili, ai mafiosi e ai terroristi. Perché tanto risentimento ?
 
Così facendo, il vescovo dava l’impressione – come notarono i più – “di essere non fuori dal mondo, ma contro il mondo, ricostruito e rappresentato a partire dai propri pregiudizi “.
 
D’altra parte, è anche vero che da consumo segreto e da sofferenza-piacere individuale, le piccole e grandi omosessualità  diventano fenomeno diffuso, spettacolare e di largo consumo.
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A differenza, per esempio, dei paesi islamici, dove le omosessualità sono sommerse e diffuse, nei paesi occidentali risultano visibili, con una tendenza a concentrarsi ;in una “zona”, più che in una vera comunità, che riguarda il cosiddetto “essere gay”.
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 Più in generale, come notava lo  psicanalista Elvio Fachinelli fin dagli anni Ottanta, a produrre l’accettazione o il rifiuto delle omosessualità maschili  è un mutamento più profondo e complesso del senso della virilità nei paesi occidentali .
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 Se al fondo della paura di perdere la propria virilità a fronte dell’ “omosessuale” c’è la presenza di una figura inquietante, castrante e sdifferenziante, che spesso rimanda più alla madre che al padre, si può supporre che il mutamento della posizione della donna-madre, più autonoma e meno bisognosa di trovare nei figli una giustificazione di se stessa, recuperando in loro un potere da cui è esclusa ( il Fallo, che dopotutto non è il cazzo ) sia decisivo sotto l’aspetto  di una maggiore accettazione delle omosessualità”.

 Diminuita virilità, quindi, nel senso tradizionale, maschilista, dei maschi, per la ridotta capacità di identificazioni decisive col padre; dall’altra parte, però  “ minore drammaticità e, si direbbe, maggiore facilità e sicurezza nell’assunzione di un ruolo maschile meno impegnativo, per la maggiore autonomia della madre”. Di conseguenza, “accresciuta tolleranza delle omosessualità manifeste e di quelle tendenzialmente esistenti in ciascun maschio”.

Passano gli anni, monsignor Scatizzi va in pensione, ma il mistero della presunta perdita, negli altri, della virilità, non cessa di ossessionarlo.  Così oggi il vescovo in pensione dà un’intervista al sito ultra-conservatore  Pontifex, per dire che i preti dovrebbero rifiutarsi di somministrare la comunione ai gay, in quanto  “L’ostentata e praticata omosessualità è un peccato che esclude la possibilità della comunione», come peraltro esclude anche i divorziati. ( Ex vescovo: «Niente comunione ai gay» , Corriere della Sera ). Insomma, niente comunione con il Signore e fuori dal Paradiso, a meno che non ci si penta, confessandosi a don Scatizzi & C.

 

 

 

 Le dichiarazioni dell’ex vescovo vengono subito raccolte da altri luogotenenti di Dio ( le cui dichiarazioni – simili a una fitta sassaiola seguita dal lancio della prima pietra – potete leggere qui).
 
Le dichiarazioni risentite di monsignor Scatizzi nascono da una pretesa di gestione politica e ideologica della sessualità ( comune a tutte le religioni , in modo particolarmente virulento alle religioni monoteiste e all’islàm con l’imposizione del velo, l’impiccagione  di presunti o suggeriti « gay », accusati di « mohareb », « nemici di Dio » ecc.). E vengono subito raccolte, tra gli altri,  dal vescovo emerito di Lucera-Troia, monsignor Francesco Zerrillo che, sullo stesso sito dei lefebvriani Pontifex  dice che bisognerebbe invitare il gay credente a non chiedere la comunione, “per non alimentare lo scandalo”.
 
Sembra che  anziani porporati  al tramonto e sempre più simili a certi mullah islamici siano eccessivamente interessati al tema della sessualità, fino ad esserne quasi ossessionati. Al punto da sentirsi in dovere di additare i presunti « colpevoli » al ludibrio generale – con il rischio di offrire alibi religiosi a qualche « purificatore » tipo « sciabola dell’islàm »  o « giustiziere » illuminato  tipo Svastichella, insomma a qualche squilibrato in preda alla sindrome della « perdita della virilità » e del « differenziale simbolico »…
 
E’ quel che pare essere capitato a monsignor Giacomo Babini, l’ottantunenne vescovo emerito  di Grosseto, che dal convento in cui si è ritirato per motivi di salute, definisce  la pratica omosessuale un « orribile difetto » : “Mi fa ribrezzo parlare di queste cose e trovo la pratica omosessuale aberrante, come la legge sulla omofobia che di fatto incoraggia questo vizio contro natura”.
 
Non c’è dubbio che un touche-pipì o un imperfetto abbraccio alla pecorina, di sponda o alla cosacco costituisca una modesta deviazione dalla vecchia Idea di « natura ». E che scambiare, per distrazione o intenzionalmente, un buco con un altro può sembrare un mancare il  « sacro » bersaglio « naturale » e quindi lo si potrebbe definire un  « peccato ». Tuttavia, nel tentativo di circoscrivere una oscura e « orribile » minaccia ubiquitaria e diffusa, di darle un nome proprio, monsignor Babini come scagliando un sassolino si lascia scappare: “…io non darei mai la comunione ad uno come Nichi Vendola”. Tirando fuori, alle soglie delle elezioni regionali, la vecchia storia del Governatore “pubblico peccatore”, pare si voglia ancora arruolare Dio in politica, con tutti i Sacramenti. ( L’intervista integrale che ha scatenato le reazioni indignate del popolo del web, forum, blog e social network  è leggibile qui, al canto dell’ “Ave Maria” e di non pochi schizzi di veleno ).
 
Salvo a dirsi poi « addolorato per le accuse di omofobia », attivando quel tipico circuito vittimario che unisce nelle menzogne e nell’odio reciproco alcuni vescovi cattolici e gran parte della popolazione italiana, non solo quella parte che si definisce « gay » ( Cfr.  Se monsignore è omofobo – Libero Blog – Libero News).
 
Anche a costo di sembrare politicamente scorretto, è giocoforza ammettere che forse è proprio vero: non solo non esistono più le mezze stagioni, come spesso ci si lamenta tra pensionati, ma neanche i bei pezzi di figa di una volta – oltre che, naturalmente, l’afrore dei bei maschi italiani sempre più “instabili”, se non simili, perlomeno così pare a don Scatizzi, a… foglie d’ Autunno.
 
 
P.S. Il sito dei lefebvriani Pontifex, oltre a sparare a zero su gay, ebrei,  musulmani e altri “peccatori”, contiene una dichiarazione di Enzo Bianchi sulla bontà dell’uso del cilicio e di “ una sana pratica dell’autoflagellazione”.  
 
Naturalmente, a fronte delle dichiarazioni dei vescovi lefebvriani e cripto- lefebvriani,  il popolo s’indigna e sembra dividersi tra farisei e libertini, cavalcando il desiderio “scandaloso” la notte e quello “sacro” di giorno, in pieno sole. Non per rincarare la dose, ma questo fotomontaggio trovato in rete e che potrebbe intitolarsi “scatizzi suoi”  mi sembra il più carino:
 
 
                     
Ma dove ve ne andate,
 
povere foglie gialle
 
come farfalle
 
spensierate?
 
Venite da lontano o da vicino
 
da un bosco o da un giardino?
 
E non sentite la malinconia
 
del vento stesso che vi porta via?
 (Trilussa)
 
Le tentazioni del dottor Antonio
 
 Antonio Mazzuolo (Peppino De Filippo) è un moralista intransigente,  ossessionato da una biondona che propaganda il latte su un cartellone. Satira surreale e onirica del moralismo e del puritanesimo nell’Italia degli anni sessanta, periodo di boom economico e di cambiamenti culturali (da Boccaccio ’70, dirige Fellini

 

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